Anna Larghi: una coreografa modern con le paillettes nel cuore

di Francesco Borelli
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Una donna piena di entusiasmo e positività. Un’artista che “attinge dal mondo” e dà voce al proprio cuore, “altrimenti il cuore si ammala”. Un’anima che vola senza paura di saltare. La rete di certo apparirà. Anna Larghi è tante cose insieme. Un cuore che batte e ti travolge con mille parole e che non conosce barriere auspicando una danza per tutti. Un esempio che regala, per fortuna, sogni, e ti fa credere, perché cosi è giusto, che anche in questa società tutto è possibile. 

Qual è stato il motivo che ti ha spinto a diventare ballerina prima e coreografa poi? 

Non avevo scelta. È stato tutto naturale. Da sempre ho avvertito, fortissima, la necessità di trasformare tutto in danza. Sorrido ripensando a quando ero bambina: trascorrevo anche mezz’ora ferma immobile ad ascoltare una canzone, una melodia e dentro di me nascevano immagini in movimento. Allora non sapevo si trattasse di danza. Ma nel tempo ho capito che quell’esubero d’immagini danzanti sarebbe stato il mio linguaggio. E ho cominciato a studiare. La mia prima insegnate fu Paola Olivieri. E l’ho amata subito. Mi ha insegnato che nella creatività non ci sono barriere. Le associazioni devono fluire liberamente. Solo cosi puoi trovare il tuo linguaggio personale. 

“Non ci sono barriere nella creatività”, un concetto bellissimo. Me lo spieghi? 

Amavo danzare, ma sin dall’inizio, per me, fu più naturale ascoltare una musica e crearvi sopra una coreografia. Avevo l’esigenza di creare qualcosa. Era un’urgenza. Non ci sono barriere nel senso che nel mondo dell’arte devi lasciare che le cose vadano, senza porti limiti, ascoltare te stesso al fine di trovare la tua strada e in essa trovare piacere. E col passare del tempo esplorare. Per noi creativi esistono delle fasi. Magari all’inizio crei su commissione. Rimonti cose già fatte. E poi, pian piano, dai voce alle tue esigenze, esplorando nuove forme, nuovi linguaggi, portando in scena ciò che senti. 

Com’era il mondo della danza e soprattutto quello del lavoro quando hai cominciato? 

Esisteva un mondo del lavoro. Appena finita la scuola, cominciavi subito. Mi spiace molto per i danzatori di oggi. Molti di loro sono meravigliosi, già pronti ma si affacciano su una realtà che, ahimè, langue. Alla mia epoca era più semplice. Se avevi talento e determinazione cominciavi immediatamente. Mettevi in pratica ciò che avevi studiato. Erano altri tempi. 

Quale fu il tuo primissimo lavoro? 

Un intervento su Rai Due nel corpo di ballo di un cantante, Jimmy Fontana. Avevo diciassette anni. Poi una lunga tournée con “Cavalleria Rusticana”. Uno spettacolo a metà tra il modern e il classico. Era il 1984. 

Che cosa offriva la televisione negli anni 80 rispetto a oggi? 

Bè, allora esisteva la figura del danzatore che aveva una sua professionalità. Oggi sembra che di questa figura non si abbia più bisogno. Da donna, m’intristisce che ciò che si cerca siano belle ragazze scosciate in grado di ammiccare e suscitare chissà che negli spettatori. Nulla contro, assolutamente. Ma tutto questo si è sostituito ai ballerini. E il grande varietà è stato un po’ dimenticato. Ore e ore di sala prove, grandi sigle, meravigliose prime ballerine. 

Hai lavorato per dieci anni con Paolo Limiti. Ci racconti questa esperienza? 

Paolo è un genio. Una persona che ha una cultura immensa e un grande rispetto per il lavoro degli altri. Inoltre ama la danza e grazie a lui fino al 2003 sono esistiti i balletti in Tv. Lavorare con un creativo come Paolo è stata di certo un’esperienza meravigliosa. Si facevano medley di otto minuti con trentadue ballerini. Oggi sarebbe impensabile. 

Quale è stato il momento più felice della tua carriera di danzatrice? 

Forse i primi anni allo Zelig, quando ancora esisteva il mitico locale a Milano. Erano i tempi in cui Aldo, Giovanni e Giacomo muovevano i primi passi. Ma come ti ho detto sin dall’inizio, sentivo l’esigenza di stare dietro le quinte. Ho più bei ricordi in questo senso. 

Passiamo al mondo della coreografia. Qual è stata la tua prima esperienza in tal senso? 

Erano gli anni 80 e insieme con altre colleghe creai un gruppo chiamato “Le Crazy Sisters”. Poi arrivarono le sfilate ballate per Diadora, Parah, Nike. E i grandi musical: “Dance” e “Tre metri sopra il cielo”, forse il primo musical moderno con la regia di Mauro Simone. 

Quando invece hai iniziato a produrre spettacoli tuoi? Mettendoti in gioco anche da questo punto di vista? 

Dopo tanti anni in Rai ero un po’ stanca. Sono stati anni meravigliosi in cui ho imparato realmente il mestiere. Si trattava di una macchina fantastica. Ma spesso capitava che in due ore dovessi creare un numero che fosse ovviamente di qualità. A un certo punto ho sentito la necessità di fare le cose con maggiore calma. Di concedermi del tempo. E non avevo scelta se non quella di assecondare il mio cuore. Chi non lo fa, si ammala. 

Secondo te qual è il ruolo di un artista? 

Anni fa lessi un libro in cui si sosteneva la teoria secondo cui gli artisti abbiano una funzione sociale. La nostra società ha bisogno di artisti cosi come di medici e dottori. E il mio compito è di dimostrare che in quest’ambiente ancora tutto è possibile. Anche se quel “tutto” sembra fermo e cristallizzato. 

Qual è il titolo del tuo prossimo spettacolo? E cosa ti aspetti dalla sua messa in scena? 

Si chiama “La Voce del silenzio” e va in scena il 22 e il 23 Novembre al Teatro Dell’Elfo dopo una serie di piccole anteprime. È difficile dire cosa mi aspetto. Di certo affronto il debutto con tranquillità. Ho fatto tutto ciò che potevo, e affido agli artisti in scena, che amo e stimo, il mio bambino. E mi godo il momento. Mi faccio un bagno d’amore. L’autrice di un libro bellissimo “Arte e Follia” sostiene che tutti gli artisti facciano questo mestiere per bisogno d’amore. In questo mi ci ritrovo completamente. In definitiva direi che mi aspetto l’affetto del pubblico, riuscire a regalare emozioni e spero che la mia esperienza di donna che fa questo mestiere e che produce, dia coraggio a tanti che vorrebbero fare questo lavoro. 

La danza è per tutti secondo te? 

La danza deve essere fruibile a tutti. Anche chi non la conosce, può amarla. Magari perché in un balletto che ha visto, vi ha ritrovato un’emozione. La danza non deve essere di nicchia. 

Come ti vedi tra qualche anno? 

Seduta in platea, in un teatro, ad assistere a uno spettacolo realizzato da chi sarà venuto dopo di me. Magari quelle persone venute dopo di me, in passato hanno visto un mio lavoro e sono stata per loro un esempio, un segnale positivo. “Salta e la rete apparirà”. Bisogna sempre provarci nella vita. 

In Italia tendiamo sempre a dare delle definizioni. Tu come definiresti te stessa? 

È cosi difficile definire se stessi. I creativi sono territori sconfinati. Come si può inserirli in uno schema? Forse mi definirei una coreografa modern con le paillettes nel cuore. Son il frutto del mio passato ma assolutamente proiettata verso ciò che sarò in futuro.

Durante l’intervista è sceso il buio della sera. Le luci son rimaste spente a lungo e la voce di Anna Larghi mi ha avvolto con un candore e una felicità che mi ha reso leggero per tutte le ore successive. Ammiro e stimo le donne come lei. Avere fiducia nel futuro e nelle possibilità che la vita ti offre, è dota rara. Attraverso la sua intelligenza e cultura Anna è in grado di accendere il cuore e di farti credere nei tuoi sogni. Esiste qualcosa di più bello? E dolce?

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