Gabrio Gentilini: un ragazzo che ha scelto di avere il coraggio di sognare

di Francesco Borelli
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Incontrare, per un’intervista, un ragazzo di ventisei anni nel pieno del successo, non è semplice. Più che altro ti aspetti un giovincello pieno di sé e con la testa tra le nuvole. Grande lo stupore e il piacere quando dopo le prime battute ti rendi conto di avere di fronte a te un uomo. Pieno sì, ma di bellezza. Di profondità e intelligenza. E ti ritrovi così, a perderti in una infinita chiacchierata che ti porta, lentamente, ad addentrarti nei pensieri più dolci e intimi del tuo interlocutore.

Quali sono stati i motivi che ti hanno condotto in sala per la tua prima lezione di danza?

Sono il terzo di tre fratelli e abitavo vicino a Forlì. Un’amica del più grande frequentava un corso di musical presso la scuola di Serge Manguette e Noemi Briganti. Io stavo per cominciare il quarto anno di basket, ma l’idea di questo corso m’incuriosì. Dissi al mio babbo che avevo voglia di approfondire lo studio della danza, e non solo anche del teatro e del canto, e per fortuna m’iscrisse subito. Non sono mai stato particolarmente dotato da un punto di vista fisico. Piedi, gambe, flessibilità. Ma avevo un gran senso del ballo e tanta voglia di fare. Sono rimasto nella scuola di Serge e Noemi per cinque anni e poi mi sono trasferito a Milano e mi sono diplomato al MTS.

Ricordi quali furono i tuoi primi lavori?

I primi lavori furono con Serge Manguette, il mio maestro dei primi anni, all’interno delle operette. Il primo contratto da professionista invece fu Mamma Mia! della Stage Entertainment. Interpretavo uno dei due amici del protagonista giovane ed ero la sua cover. Fu una palestra grandiosa. Un cast splendido con una stella come Chiara Noschese. Ho dei bellissimi ricordi. Poi arrivò La Febbre del sabato sera.

Come si affronta un ruolo cosi importante come Tony Manero? O quello di Johnny Castle? Si tratta di personaggi che sfiorano il mito e che han segnato intere generazioni.

Mi approccio a tutti i ruoli che interpreto da attore. C’è una storia ben scritta e tu devi dare la tua interpretazione dei personaggi. Ho dei riferimenti importanti, certo, ma non li posso eguagliare. Cerco piuttosto di capire cosa gli ha permesso di essere così comunicativi. Non parlo solo delle movenze, dello stile. Cerco piuttosto di comprendere la chiave che ha permesso loro di creare così tanta e tale empatia col pubblico. Una volta capita la adatto su di me. Solo cosi si può essere credibili.

Tanto ne La Febbre del sabato sera che in Dirty Dancing la danza la fa da padrona. E ciò che è interessante è che si tratta di stili differenti per non dire diametralmente opposti.

Quello che mi riconosco è la versatilità degli stili. Non delle tecniche, ma degli stili sì. Affrontare mondi di danza differenti mi stimola molto. E’ stato bello, sempre difficile, ma con impegno e dedizione, il risultato arriva sempre.

Ricordi la telefonata in cui ti annunciavano che avevi passato l’audizione e che avresti interpretato Tony Manero?

Se ci penso, mi viene ancora da piangere. E’stata la dimostrazione che se desideri realmente qualcosa e ascolti il tuo cuore, proteggendo e accarezzando il tuo sogno, le cose arrivano. Io ero Tony Manero. Andavo in giro vestito come lui. Volevo che tutti mi riconoscessero e m’identificassero con lui. Ancora prima di essere preso pensavo con commozione al giorno della prima, alla platea gremita e ai miei genitori in sala.

Ancora prima delle audizioni?

Si. E’questo il segreto. Realizzi le cose in cui credi se riesci a proiettarti in esse. Nell’attesa dell’esito dei provini ero totalmente tranquillo. Non avevo paura. E Dirty Dancing è stata la conferma che nella vita le cose vanno proprio cosi. Siamo fatti di sogni, diceva qualcuno. E in essi bisogna credere. Sempre.

Tu pensi che questo valga per tutti? Basta davvero solo credere nei propri sogni per realizzarli?

È la vita che t’insegna la vita stessa. Noi siamo, dentro di noi, il riflesso di ciò che seminiamo all’esterno. Lamentarsi tutti i giorni, non serve. È controproducente. Le cose non andranno mai bene. Durante i periodi di prova arriva puntuale il momento in cui mi perdo, non so più a che punto sono. Se in questi momenti mi lamentassi e non reagissi le cose andrebbero degenerando. Invece cerco di dar forma al mio problema, lo accetto e il giorno dopo mi sveglio col sorriso. Cosi ti tornano indietro affetto e amore.

Tieni molto ai tuoi affetti?

Sì. La famiglia, gli amici, sono le persone con cui per prime condivido queste emozioni. Il pullman che arriva da Forlì fino a Milano, per assistere al mio spettacolo, mi riempie il cuore. Serge e Noemi sono stati i primi che han detto: “tu hai le carte in regola per fare questo lavoro, hai il cuore giusto”. Sarò sempre grato a loro e li porto con me. Anche sul palco.

Quanto valore dai alle critiche positive che ti sono rivolte? E quanto a quelle negative?

Tengo sempre a dare molto più peso alle critiche negative. Questo perché è mio desiderio migliorare sempre. E tentare di rendere lo spettacolo fresco e nuovo tutte le sere. In generale però, ciò che m’importa davvero sono le persone che dopo lo show vengono a stringerti la mano. Magari padri di famiglia che nulla hanno a che fare con lo spettacolo e che vengono per ringraziarti e dirti bravo. Se si arriva al cuore delle persone, le cattiverie o le critiche negative passano in secondo piano.

Parlaci del tuo Johnny Castle.

La danza del film è molto diversa da quella del nostro spettacolo. Ovviamente, trattandosi di teatro tutto è più pulito e preciso. E poi Patrick Swayze ed io abbiamo energie diverse. Lui implodeva, aveva un temperamento contenuto. Io mi sento leggermente più esplosivo. Seppure raccontiamo la stessa storia, siamo differenti, ognuno con la sua verità.

Riesci a darmi una definizione di te stesso?

Un ragazzo che ha scelto di avere il coraggio di sognare. Arrivo da un paesino di 2000 persone. Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto grazie alle mie forze, affidandomi a chi poteva insegnarmi questo mestiere che amo. E, ripeto, credendoci.

Dopo La Febbre del sabato sera e Dirty Dancing quale ruolo da protagonista ti piacerebbe interpretare?

Bert in Mary Poppins. Non è un sex symbol come Tony o Johnny e uscirebbe fuori la parte più comica e leggera di me. Poi è un personaggio molto amato dai bambini e quest’aspetto mi piace davvero tanto. Mi cimenterei per la prima volta con un musical più classico e con uno stile di danza come il tip tap che adoro.

Ti ci senti un sex symbol?

Un pochino (e qui sorride). Non nella vita ovviamente, ma sul palco sì. I ruoli che ho interpretato mi hanno aiutato a scoprire molti lati nascosti di me. Sia Tony sia Johnny sono personaggi con un forte ego. Devono essere ammirati e stare sempre al centro dell’attenzione. Grazie a loro mi sento, oggi, più sicuro di me. E adesso riesco a sentirmi tale anche in molte situazioni della vita che non sono quelle del palcoscenico.

Quali sono le persone che, nel tempo, ti hanno ispirato e sono stati esempi per il tuo lavoro?

Sono nato guardando le popstar e i video musicali. Il musical l’ho scoperto dopo. Amo Hugh Jackman. Nella vita reale la prima persona che ho amato è stata Noemi Briganti. Ho avuto sin da subito la piena consapevolezza di avere davanti una stella. Con lei ho capito cosa significasse la qualità del lavoro. Noemi è piena luce. Pieno carisma. Mi ha insegnato a non fare un personaggio, ma essere quel personaggio. Io non voglio fare Patrick Swayze, io voglio essere Johnny Castle. Devo brillare per ciò che sono io. Altro grande riferimento è stato Chiara Noschese. A lei devo tutto ciò che ho imparato sul mestiere del protagonista. È grazie a lei, ai suoi consigli e al suo starmi vicino, se ho dato credibilità ai miei personaggi.

Quale luce vorresti che gli altri vedessero in te?

La forza della vulnerabilità. Se hai il coraggio di essere sincero di fronte al pubblico, con i tuoi pregi e i tuoi difetti, diventi forte, vero, magico per alcuni. Io vorrei che gli altri vedessero in me la luce della verità.

L’interesse dei media, i giornali, le persone che vogliono conoscerti, abbracciarti. Che effetto ti fa tutto questo?

È una sensazione bellissima. Le persone ti si vi avvicinano, ti scrivono, ti regalano affetto perché ti sono grate di avere donato loro un’emozione. E poi, una cosa che amo, è che questi grandi show non sono un successo solo mio. Ma di tutto il cast. Dagli artisti in scena fino ai produttori, i tecnici e tutti quelli che sul palco si prendono cura di noi. Con La Febbre del sabato sera, però, ho imparato una cosa: il successo va e viene. Finito uno spettacolo, si ricomincia tutto daccapo. Anzi, è sempre più difficile. Non puoi sbagliare. Si vola, ed è bellissimo, ma poi, con l’umiltà di chi ha una vita ancora per imparare mille cose, si torna con i piedi per terra.

Come ti vedi tra venti anni?

Più affermato professionalmente. Magari innamorato e orgoglioso di me, della mia vita. E poi vorrei sempre muovere energia bella e positiva, aiutare le persone a credere in se stessi e a realizzare i propri sogni. In fondo, se ci sono riuscito io…

Qualche giorno dopo l’intervista vedo Gabrio in scena. È indiscutibilmente bravo. Sicuro, forte e ci regala tutte le emozioni e le contraddizioni di un personaggio come Johnny. Ma io lo rivedo seduto in quell’ufficio durante l’intervista. Con la voce calma, a volte rotta dall’emozione di racconti che gli toccano il cuore. Pacato e profondo. Umile, ma al contempo ricco di una fiducia nella vita che regala pace a me, interlocutore attento. Gabrio Gentilini crede nei propri sogni. La sua vita, le sue conquiste ci insegnano che, a volte, credere nelle proprie più intime speranze è la scelta giusta. E forse, non esiste nulla di più bello.

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