Pompea Santoro: “Le passioni non si comprendono. Si devono coltivare e condividere”.

di Giada Feraudo
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Dopo una brillante carriera da ballerina, iniziata quando era giovanissima e proseguita, nel corso degli anni, al fianco di Mats Ek, tuttora uno dei più illustri nomi del panorama coreografico contemporaneo, Pompea Santoro ha recentemente dato vita a un progetto, l’’Eko Dance International Project, che echeggia, di nome e di fatto, il repertorio del coreografo svedese. 

Che cos’è esattamente l’’Eko Dance International Project? 

è un progetto nato per aiutare quei ragazzi che hanno dedicato alla danza anni di studio ma che poi faticano a trovare un posto di lavoro. Tanti di loro studiano e si perfezionano in grandi accademie, per cui le famiglie spendono molti soldi, e poi, una volta usciti di lì, non sanno bene cosa fare e come muoversi nel mondo del lavoro. L’’Eko Dance ha come scopo quello di mettere i giovani di fronte alla domanda: “Cosa farò? Posso/voglio fare il ballerino oppure no?” In un percorso di due anni i ragazzi hanno così la possibilità di capire se sono “tagliati” fisicamente, tecnicamente e psicologicamente per fare i danzatori professionisti, questo progetto propone loro gli strumenti adatti per fare questa valutazione. Se vogliamo è una sorta di tirocinio su come funziona la vita in una compagnia ed è aperto anche a chi non è determinato a fare il ballerino ma vuole conoscere a fondo l’’arte della danza, o magari fare il coreografo, e ha così l’’opportunità di avvicinarsi in modo completo al lavoro di Mats Ek. L’’Eko Dance International Project è tante cose, non una sola. 

Quale aspetto della formazione ritieni sia particolarmente importante, tenendo conto della tua esperienza di insegnante? 

Uno dei compiti dell’’insegnante è quello di capire su cosa un allievo dev’’essere formato. Tanti ragazzi si iscrivono alle scuole di danza per fare moderno, contemporaneo e quant’’altro ma è fondamentale sapere che queste etichette non definiscono “danze a parte”. Sono convinta che ci si debba avvicinare alla danza, a qualunque genere di danza, passando dalla formazione classica, per avere almeno le basi. Non è qualcosa che si può scindere. Per gli allievi che hanno come obiettivo quello di ballare moderno o contemporaneo ci dovrebbe essere comunque sempre uno studio della danza classica come supporto, come preparazione. Secondo me attualmente questo non esiste, se non in rari casi, ma è importante. È fondamentale impostare il corpo per portarlo a fare determinate cose. Il classico è l’’unica tecnica, non ce ne sono altre. Ci sono metodi, ma lo studio è solo ed esclusivamente quello del classico. Bisogna impararne la tecnica, il vocabolario. Ogni ballerino deve sapere cos’’è un tendu, un grand jeté, è imprescindibile. 

Nelle tue lezioni metti un’’energia e una passione grandissime, le stesse che portavi in palcoscenico quando ballavi. Perché ti piace tanto insegnare? 

Non lo so. Quando hai una passione come fai a capire perché ce l’’hai? Quando avevo nove o dieci anni andavo in vacanza dalla nonna, in meridione, e lì riunivo i miei amichetti e facevo far loro lezione, degli esercizi a terra. Ho iniziato a insegnare stabilmente a quarantatré anni, non a venti come fanno tanti. Il mio primo insegnamento ufficiale è stato a trentadue o trentatré anni, quando Mats mi mandò a Monaco per rimontare Giselle. Adesso ho l’’esigenza di insegnare per trasmettere agli altri tutto il lavoro fatto su di me, tutto quello che ho imparato. è importante essere coscienti di avere un talento, bisogna usarlo per aiutare gli altri, cercare di trasmettere tutto quello che si può. Ad esempio, io non mi preparo mai la lezione a casa, improvviso in sala. Invece Veli (Pekka Peltokallio, ndr), mio marito, si studia tutto prima, ascolta le musiche, è sempre pieno di foglietti … io non ce la faccio. 

Quali sono i futuri progetti con L’’Eko Dance International Project? 

Abbiamo già delle date stabilite per il prossimo anno, di cui tre presso il teatro Astra, in collaborazione con Paolo Mohovich, e poi altre tra cui Venezia. Tutti gli spettacoli che facciamo sono naturalmente basati sul lavoro di Mats Ek, ma poi ci sono altre collaborazioni, tra cui quella, già iniziata quest’’anno, con Paolo Mohovich, che insegna e fa danzare ai ragazzi le sue coreografie, o con Raffaele Irace, un altro giovane coreografo. La base, ripeto, resta sempre  Mats Ek, per avere delle basi solide sia per i ragazzi che per il pubblico, ma l’’intento è quello di aprire sempre di più ad altri coreografi, o anche ai ragazzi stessi che vogliano cimentarsi nella coreografia, avendo però sempre un punto di riferimento stabile. Questo, naturalmente, non vuol dire copiare ma capire il perché di un lavoro, come si costruisce una coreografia. Ci sono già anche delle persone che ricercano una collaborazione con noi, dei coreografi che chiedono di usare i “miei” ragazzi. In questo caso il compito diventa difficile anche per me perché se loro non sono pronti non li posso mandare, non è facile scegliere e capire chi è veramente pronto per lavorare. Non credo che l’’Eko Dance diventerà mai una compagnia, quello che vorrei è una mia scuola, in modo da poter impostare il lavoro come voglio io, per vedere se funziona veramente. La compagnia non mi interessa, se mai lo diventerà lo farà in maniera spontanea, così come è nato. Sono molto contenta di questi tre anni di vita dell’’Eko Dance, poi quello che sarà sarà. 

Mats Ek, al fianco del quale tu hai lavorato per così tanto tempo, è anche un grande narratore e nei suoi balletti esprime spesso concetti molto forti, basti pensare a Giselle, alla Bella Addormentata: secondo te, anche alla luce della recente esperienza che stai portando avanti, il suo è un repertorio più facile da affrontare per i ballerini molto giovani o per i più adulti? 

Dipende: io preferisco lavorare con ragazzi molto giovani. Ci va forse più tempo ma spesso ottieni di più perché non hanno ancora un loro modo di fare. Con ballerini che hanno già esperienza è difficile, hanno un loro vissuto, non puoi arrivare e pretendere di cambiarli in sei settimane di prova, non riesci a portarli dove vuoi. Con i giovanissimi è più facile, ottengo risultati migliori con i ragazzi delle accademie che con i professionisti perché faccio meno fatica a farli arrivare dove voglio. Sono puri, puliti. A Monaco di Baviera l’’interprete Giselle aveva diciannove anni: l’’ho aiutata a trovarsi, l’’ho portata al risultato che volevo ottenere da lei. I professionisti magari talvolta chiedono tante correzioni ma poi in fondo sono sempre loro stessi, hanno una personalità affermata, che per forza di cose viene fuori. Molto però dipende anche dal ruolo: Giselle l’’ha potuto fare una ragazzina diciannovenne, per Carmen non sarebbe possibile, forse neanche per Aurora. 

Spesso sei chiamata da varie compagnie, soprattutto all’’estero, per rimontare i balletti di Mats Ek: quali sono le difficoltà che ti trovi a dover affrontare e superare con i professionisti che affrontano per la prima volta il lavoro di questo coreografo? 

Il lavoro di Mats è senza dubbio molto particolare. Nelle compagnie molto contemporanee lui non va mai perché spesso manca quella pulizia che solo il classico può dare. Tutto quello che c’’è tra una forma e l’’altra è un passaggio che dev’’essere, anch’esso, pulito. Per i ballerini molto classici la grande difficoltà è la rigidità: Mats è estremamente fluido e, nello stesso tempo, pesante. Non è facile far muovere un ballerino classico, soprattutto per quanto riguarda i movimenti della testa e della schiena, che di solito, nel classico, sono tenute per facilitare salti e giri. Non è necessario mantenere questa rigidità ma non sempre è facile farlo capire. è senza dubbio un lavoro duro, che richiede come minimo sei settimane di prova; recentemente a Zurigo ne hanno fatte addirittura dodici, io credo che per una ripresa sei vadano bene. 

C’’è un balletto in particolare che preferisci rimontare? Se sì, perché? 

Insegnare Giselle per me vuol dire andare senza minimamente prepararmi perché lo conosco troppo bene, ho danzato tutti i ruoli di questo balletto, non ho più bisogno di studiarlo. è il più naturale da insegnare per quanto mi riguarda. E poi ogni volta mi stupisce, anche adesso, dopo tanto tempo. In Giselle tutto è perfetto, sia musicalmente che drammaturgicamente. Ancora oggi mi chiedo come ciò sia possibile. Inoltre è sempre apprezzato dai ballerini e dal pubblico. Carmen è più faticoso, più complesso, ma anche lì ho ballato tutto, perciò lo conosco molto bene. Nella mia carriera non ho mai avuto un infortunio, quindi ero sempre lì, ho imparato tutto ed ero sempre quella che sostituiva tutti perché ero “standard”, fisicamente giusta un po’ per qualsiasi cosa, andavo bene per tutto. Io che ero “standard” volevo invece essere “diversa”. Alla fine, con il tempo, ci sono riuscita. Insegnare i balletti di Mats è fantastico, vuol dire insegnare la vita, non solo un passo ma quello che c’’è dietro a quel passo, il perché, le emozioni che si provano: non stiamo parlando solo di una sequenza di movimenti, né per l’’esecutore né per il coach, è una cosa complicatissima per entrambi. 

Quale, fra i ruoli di Mats Ek che hai danzato, ti rappresenta di più o hai sempre preferito interpretare, e perché? 

Prima di tutto forse Adela ne “La casa di Bernarda Alba”, ruolo che ho interpretato per la prima volta a diciassette anni e per l’’ultima quando ne avevo trentasei. Adela è una grande parte di me, è una ragazzina ribelle che mi ha sempre rappresentata molto, ovviamente con una consapevolezza diversa nel corso del tempo. Giselle è il ruolo che mi ha aiutata a capire quella che sono, ha tante cose di me ma io all’’inizio non lo sapevo, è stato il personaggio a farmele scoprire. Ho danzato in questa parte per dieci anni, dai ventisei ai trentasei. Mi ha aiutata a capirmi. Le esperienze di Giselle erano le mie, certi problemi suoi erano anche i miei, ci sono stati avvenimenti della mia vita vissuta assai simili ai suoi. Giselle è finita in manicomio e io ci sono finita insieme a lei, sul palcoscenico. Anche Carmen sono un po’ io, e così pure Aurora. Tutti i ruoli sono stati importanti per me, mi riconosco un po’ in tutti. 

Qual è stata la cosa più importante e più bella che ti hanno lasciato tutti gli anni di lavoro al fianco di un genio come Mats Ek? 

Mats mi ha fatto capire che la danza è qualcosa di tuo che devi condividere con gli altri. Questa è la cosa più bella. è un discorso molto profondo, nel lavoro di Mats c’è sempre una ricerca di sé stessi, del sentimento, di cosa si prova, è uno scandaglio continuo e incessante che porta alla consapevolezza e alla sicurezza. Solo allora si può arrivare a esprimere e a condividere ciò che si sente. Io auguro ai ragazzi di capire perché la danza è arte. Pochi, a mio avviso, l’’hanno capito. Io l’’ho fatto, altrimenti non sarei mai diventata una ballerina. La danza è qualcosa di tuo, che tu senti, capisci, vivi e fai tuo. Ma questa cosa che riesci a sentire e a vivere la devi condividere con gli altri. Ballare per sé stessi non funziona, e purtroppo questo accade troppo spesso. L’’augurio più bello che posso fare ai ragazzi è di arrivare a capire davvero cosa sia la danza.

Crediti fotografici: Lesley Leslie-Spinx

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