Ed è proprio il caso di dirlo; Moses Pendleton ha festeggiato in grande stile il 35esimo “compleanno” della sua compagnia, scegliendo di fare ritorno nello stesso teatro milanese che 35 anni fa ne ospitò il debutto italiano. Certo da allora la compagnia si è trasformata, evoluta e arricchita, ma conserva ancora la straordinaria capacità di stupire e uno spirito di magica meraviglia quale forza motrice di ogni numero.
Lo spettacolo è stato pensato per condurre il pubblico nell’universo Momix, un viaggio che permette di esplorare il loro originale repertorio attraverso le coreografie più famose ed iconiche del passato, ma che allo stesso tempo consente di dare uno sguardo al futuro della compagnia grazie alle nuove creazioni inserite nel programma.
Dopo l’apertura, affidata alle scintillanti Pleiadi, è di scena uno dei numeri più spettacolari presentati; curve sinuose e bilanciamento perfetto sono le caratteristiche che contraddistinguono l’imponente struttura metallica che rapida inizia ad oscillare sul palco, orchestrata da due danzatori-acrobati. Sospensioni, rotazioni, equilibri conquistati e subito abbandonati, assecondando il movimento oscillatorio solo in apparenza vorticoso e casuale. Gli acrobati sono un tutt’uno con la struttura danzante, una corrispondenza totale che produce nello spettatore una piacevole sensazione di armonia. Non a caso il titolo è Dream Catcher, un conturbante acchiappa-sogni.
Forza e potenza invece emergono in Pole Dance; al contrario di ciò che ci si potrebbe aspettare dal titolo, sulla scena appaiono tre uomini. Il numero si costruisce su repentini scambi e contrappesi in sospensione, un movimento continuo ottenuto attraverso l’uso di pali mobili e coadiuvato dal ritmo tribale incalzante.
Uno degli elementi che si potrebbero definire portanti all’interno della costruzione coreografica di Pendleton è la rotazione del corpo; molti sono i numeri in cui i danzatori girano su se stessi creando per effetto ottico nuove figure e trasformando la materia. Uno dei brani dove meglio si legge questo concetto è Marigolds, le nostre calendule, ricreate tramite strati e strati di leggero tessuto arricciato; le danzatrici simulano la vita dei fiori volteggiando quasi senza sosta.
Suggestivo e ipnotico Frozen Awakening, un assolo danzato su una superficie specchiata, dove tutto si moltiplica; le braccia, le gambe, le linee, i movimenti assumono nuove forme e l’unisono perfetto tra il corpo e il suo riflesso coinvolge lo spettatore, inevitabilmente attratto dall’immagine e dal suo mutare.
E ancora in Baths of Caracalla è possibile ammirare la coordinazione abbinata alla “fluidità” delle danzatrici e dei teli bianchi che si agitano e volteggiano; un piacere per gli occhi impegnati a leggere i disegni creati dal fugace movimento dei teli. Grande velocità ritmica e sincronismo.
Il numero conclusivo If you need somebody è un vero trionfo di acrobazie, ritmo, coordinazione e, perché no, umorismo; in scena l’intero cast “allargato” grazie alla presenza di manichini, utilizzati come fossero naturali estensioni dei danzatori, loro compagni sulla scena. Di sicuro impatto visivo, la coreografia è un incalzare continuo all’insegna dell’inaspettato. Un finale corale ed esplosivo.
Se questo era il 35esimo anniversario, chissà quali sorprese ha in serbo per il suo pubblico quel genio di Moses Pendleton.