Incontrare Serge Manguette e condividere con lui tante esperienze di lavoro in giro per il mondo è stata una delle esperienze più formative e belle di tutta una vita. Parlare di danza con lui è come avere per interlocutore un meraviglioso libro, le cui pagine, tutte, rivelano l’incanto e lo splendore di un mondo senza eguali.
Provieni da una famiglia di artisti. Quanto ciò ti ha condizionato nella scelta di fare il ballerino?
Mia madre era prima ballerina. Ogni settimana andavo a vederla danzare e quotidianamente vivevo e respiravo l’aria del teatro. Già a cinque anni facevo la comparsa. Assistevo ai cambi scena, vedevo i sipari, l’orchestra. Sentivo la musica e pensavo che nella vita avrei fatto il regista. Intanto crescevo un po’ sovrappeso e mia madre, che dirigeva una scuola di danza, mi propose di cominciare a studiare. A quattordici anni, poco interessato alla scuola, iniziai a dedicarmi agli studi di danza totalmente. Prendevo tutti i giorni lezioni private e collettive. Riuscii a concludere in tre anni il programma di sei, e mi diplomai al conservatorio, ottenendo la medaglia del governo belga.
Poi che cosa successe?
Feci un’audizione al balletto di Wallonie e fui preso come stagiaire. Facemmo una lunghissima tournée con Vasiliev e Maximova. E le influenze e gli acciacchi di tanti mi permisero di ballare moltissimo, anche in ruoli da solista. Avevo solo diciassette anni. Intanto attendevo i documenti per ottenere la borsa di studio e perfezionarmi al Mariinsky di San Pietroburgo, l’allora Kirov dell’allora Leningrado. Avuti i documenti, mi trasferii e dopo due anni mi diplomai all’Accademia Vaganova. Feci ancora un terzo anno per approfondire i miei studi, dopodiché venni a lavorare in Italia. Era il 1982.
Dove hai lavorato?
Mi presero al Teatro Verdi di Trieste. Ma dopo un anno lasciai e decisi di non legarmi più a un ente lirico. La burocrazia eccessiva e le lunghe trafile non fanno proprio per me. Intanto conobbi Noemi Briganti e con lei decidemmo di fondare una compagnia, “Il giovane balletto classico”. Facemmo Coppelia, Don Chisciotte e mille altri spettacoli. Dopo dieci anni, però, non godendo di alcun tipo di sovvenzione, non ce la sentimmo più di proseguire. E chiudemmo. Continuammo, tuttavia, a lavorare moltissimo. Sia in Italia, sia all’estero.
Tu hai avuto, a tutti gli effetti, una carriera di stampo internazionale. Prima come ballerino e poi come regista e coreografo.
Sì. I contatti con la Russia sono rimasti. E nel tempo sono tornato sia in veste di danzatore, sia in veste di coreografo. I primi anni mi chiamò una compagnia che si chiamava “Balletto Teatro da Camera” diretta da Valentina Ganibalova, ex étoile del Mariinsky, con la quale ho lavorato moltissimo. Poi son stato in Repubblica Ceca e ancora in Russia con il “Balletto di Mosca La Classique”, per il quale, nel 1995, ho creato la versione in balletto de La Vedova Allegra.
Qual è stato lo spettacolo che ha segnato il passaggio da ballerino a coreografo a regista? Quando hai deciso di smettere di ballare?
Il primo lavoro da coreografo fu Paquita, cui ne seguirono moltissimi altri. E per tanti anni le cose andarono di pari passo. Danzavo e facevo coreografia. Nel 2004, però, ho appeso definitivamente le scarpette al chiodo. Si trattava di uno spettacolo che avevo creato per il “Balletto di Milano” e Oriella Dorella, Traviata.
Tu sei, fra le tante persone conosciute, quello che racchiude in sé il maggior numero di passioni. Da un lato, la conoscenza profonda del grande repertorio classico e della tecnica accademica pura. Dall’altro, l’amore per il musical e l’operetta.
A cinque anni vidi danzare mia madre proprio in un’operetta. E fu subito amore. Era uno spettacolo meraviglioso. C’era il canto, la danza, la prosa, i costumi sfarzosi. Gli spettacoli musicali sono in assoluto i più completi. Quando assisto a uno spettacolo di prosa, per esempio, per quanto bellissimo, sento che mi manca qualcosa. E poi adoro le contaminazioni. Unire i diversi stili di danza e di spettacolo. Oggi, ritengo che sia la cosa più bella e interessante che si possa fare. Purché, ovviamente con grande qualità.
A tuo avviso, qual è la strada giusta da percorrere per essere un coreografo o un regista in grado di soddisfare le esigenze del pubblico?
Ogni volta che inizio a lavorare a uno spettacolo, mi metto dalla parte del pubblico. E ciò che il pubblico desidera è emozionarsi. La gioia, la malinconia, la tristezza … Tutti sentimenti che lo spettacolo, in base alla storia trattata, deve regalare. Il tutto condito a una grande qualità di lavoro e a un’umiltà del regista, che deve saper imparare anche dagli errori.
Durante un’audizione, quale tipo di ballerino ti colpisce?
Innanzitutto, il danzatore deve avere una buona formazione classica. Questo è assolutamente imperativo. E poi deve essere completo. Bisogna saper danzare tutto. Il classico, il jazz, il contemporaneo, la danza di carattere. Quest’ultima, ahimè, non s’insegna quasi più. Neppure nelle grandi accademie.
Qual è, secondo te, la differenza tra la danza in Italia e all’estero?
Forse in Italia, rispetto a molti altri paesi europei, c’è un problema di tipo culturale. I giovani non conoscono la danza, né la cultura che a essa è legata. E non c’è alcuna diffusione in tal senso. Neppure la televisione mostra più i balletti. E questo è un vero peccato.
Come ti poni nei confronti dei talent show?
Ben vengano, se costruiti con intelligenza. Quest’anno ad “Amici” ho visto grandi talenti e coreografie splendide. Ed è venuta meno quella modalità totalmente diseducativa per cui gli allievi osavano rispondere ai maestri. Inaccettabile.
Tu sei ballerino, coreografo, regista e maestro di danza. E tutti gli allievi che hai cresciuto e le persone con cui hai lavorato, letteralmente ti adorano. Che cosa ti rende così speciale?
La passione, l’amore per la danza, il rispetto per quest’arte sublime. Credo sia proprio questa la strada. La disciplina della danza è durissima. In assoluto la più dura tra le forme d’arte. Perché i ragazzi affrontino tutti i sacrifici legati a essa, devi trasmettergli l’essenza stessa della danza, la consapevolezza piena del suo valore e l’immenso rispetto per il lavoro più bello del mondo.
Qual è, tra i tuoi spettacoli, quello cui sei più legato?
Tra i balletti sono molto legato a Carmen, Traviata e Le vie de Bohème. Forse quest’ultimo più di altri mi ricorda la mia infanzia. Mia nonna era soprano e la mia mamma si chiamava Mimì. Tra le operette Il Cavallino bianco. Tra le commedie musicali No No Nanette. E un giorno mi piacerebbe dirigere un’opera lirica. Chissà, magari proprio La Bohème.
Se un giorno ti dessero la direzione di un teatro?
È il sogno della mia vita. Avere un teatro e avere il tempo di fare le cose con calma. Senza correre. Concedendosi il tempo di sperimentare, provare, cambiare, senza avere il fiato sul collo e i minuti contati. E poi mi piacerebbe andare in teatro da solo, salire sul palco, magari al buio, toccare il sipario. Il teatro è la mia casa. E il luogo più familiare per me. Starne lontano è un po’ come soffrire. Anni fa vidi un film di Charlie Chaplin, Luci della ribalta. Finita la visione, piansi per un’ora. Mi ci ritrovai pienamente. Era come se fosse stata rappresentata in pellicola la mia vita. Per me il teatro è tutto. È l’aria che respiro, l’essenza stessa di tutto ciò che sono e voglio essere. Un giorno il maestro Giuseppe Carbone, rivolgendosi ad alcuni bambini, disse: «Quando entrate in teatro, dovete comportarvi come se entraste in chiesa». Mai fu detta verità più grande.
Finita l’intervista, Serge torna al suo teatro. Rientra in casa senza chiudere la porta. La lascia lì, semiaperta. Forse perché questo vuole il pubblico. Sentirsi accolti e rispettati. E amati. Serge Manguette sa amare e farsi amare. Regala mille emozioni perché è lui per primo a sentirle dentro di sé. Ride, si commuove, danza. Un artista è tale in ogni momento. E lo è per tutta la vita.