Quante volte nella vostra vita vi è capitato di sfogliare un libro di storia e amarlo? Incontrare il maestro Roberto Fascilla è stato un po’ come fare un tuffo nella storia della danza, immergersi nei ricordi e nei racconti di chi, quegli splendidi anni, li ha vissuti davvero. E infine perdersi tra fiumi di parole, danzatori e coreografi, balletti e aneddoti che meriterebbero di esser posti per iscritto e studiati da ballerini e appassionati.
Inizio col citarla “I ragazzi oggi non conoscono ciò che è stato”. Quanto è importante che le nuove generazioni studino la storia della danza e abbiano consapevolezza di ciò che è venuto prima di loro?
È determinante. È come andare a scuola e non sapere chi erano Garibaldi o Mazzini. In Italia, dagli anni 50, ci son stati danzatori e coreografi d’immenso rilievo che hanno contribuito a regalare considerazione al mondo del balletto, a rendere la danza la disciplina importantissima che oggi dovrebbe essere. Eppure pochi giovani danzatori conoscono Serge Lifar o Anton Dolin, colonne portanti di questo processo di rivalutazione continuato poi negli anni 60.
Secondo lei la responsabilità è dei ragazzi che si approcciano alla danza in maniera troppo “televisiva”, oppure mancano delle strutture a monte che possano favorire questo tipo di studio?
Oggi informarsi è facilissimo. Tutti dispongono di un computer e già a cinque anni i bambini sono capacissimi di usarlo. Tanto nelle scuole private, quanto nelle accademie, il tempo a disposizione è sempre troppo poco. Però sono gli insegnanti che dovrebbero incitare gli allievi e proporre dei piccoli compiti a casa per conoscere la danza classica nella sua completezza. Non solo i passi e la praticità dello studio, ma anche la storia dei balletti, la musica, gli autori e i ballerini. Ciò che manca oggi è una cultura totale che vada a complemento della danza classica. La danza non è solo esercizio ginnico. Io dico sempre che una cosa è insegnare la danza, un’altra insegnare a danzare. Sono due cose ben distinte.
Approfondisce questa distinzione per favore?
La danza ha una ginnicità che include la partecipazione di tutto il corpo. Anche della testa, ma poco del cervello. Il cervello deve trasformare la ginnicità di cui si parlava in un’emozione che bisogna trasmettere. È la differenza tra il mero esecutore e l’artista.
Parliamo dei suoi inizi. Cosa l’ha spinta ad avvicinarsi alla danza?
Il motivo fa sorridere. A nove anni, dopo una visita medica, risultò che soffrivo di rachitismo. E il medico consigliò a mio padre di farmi fare della ginnastica. Mio padre direttore del Bifiscala, il dopo teatro più famoso di Milano, parlò con alcuni insegnanti del teatro. E gli suggerirono di farmi studiare danza, disciplina sicuramente completa. E così cominciai. Studiavo con gli adulti. Non esisteva un corso per bambini né, tantomeno, un corso per maschietti. Era il 1947. L’anno successivo un insegnante di allora, in virtù della mia presenza, chiese l’apertura di un corso maschile. Nel ‘49 gli allievi maschi divennero cinque. E piano piano il numero aumentò. Furono gli anni in cui, a parte me, nacquero Bruno Telloli, Amedeo Amodio, Flavio Bennati e altri. Comunque la scuola maschile nacque con me.
Lei fu, tra le altre cose, il primo uomo nominato “primo ballerino” e poi “étoile”.
Feci il mio passo d’addio nel 57. Ma già dal 53 facevo parte del corpo di ballo e danzavo da solista. Tant’è che, nei programmi dell’Arena di Verona di quegli anni, compaio tra i danzatori solisti. Una delle prerogative del corpo di ballo della Scala, tra il Cinquantadue e il Cinquantanove, era quella di fare la stagione estiva all’Arena di Verona che non disponeva di un corpo di ballo proprio. In quegli anni, tra l’altro, ballai in “Romeo e Giulietta”. Non tutti sanno che la Russia non permetteva l’uscita della partitura. La prima volta fu nel 54/55. Il primo coreografo, dopo i russi, fu Alfredo Rodriguez, un solista del Royal Ballet. E in quella prima edizione europea io interpretavo Paride con Violetta Verdy. La nomina a primo ballerino avvenne nel 1959. E anche in questo caso fui in assoluto il primo “primo ballerino” uscito dalla scuola della Scala.
Cosa avvenne in quegli anni? Quali furono l’esperienza di lavoro più significative?
In quegli anni la televisione proponeva tantissimo balletto. All’interno dei varietà dell’epoca si eseguivano vere e proprie coreografie. Gisa Geert, coreografa austriaca di fama e talento, disponeva di una coppia di danzatori bravissimi. I due litigarono e lei ebbe l’intuizione di usare il primo ballerino della Scala. Così chiamò me. Dopo due anni prese anche Elettra Morini come mia partner e Amedeo Amodio come solista. Era il 1962, e si traducevano in balletti i grandi classici della letteratura come Oliver Twist o Casanova. Dopo Gisa Geert, è iniziata un’epoca di grandi coreografi televisivi come Paul Steffen, Ermes Pam, Gino Landi, Valerio Brocca e Tony Ventura. Ricordo che, nella mia prima apparizione televisiva, fui presentato da Alida Valli e interpretai James Bond. Ballai anche brani del repertorio classico. In “Napoli contro tutti” mi esibì ne “L’Uccello di fuoco” e “La bella addormentata” con Vera Colombo.
Torniamo al Teatro alla Scala. Che ricordi ha di quei primi anni?
Nel mio corso di allora ero l’unico uomo con sette donne. Di conseguenza ero l’unico partner disponibile. Questo mi regalò mille possibilità. Non solo accompagnavo le allieve del mio corso, ma anche quelle dell’anno precedente. Infatti fui io il partner di Carla Fracci nel “Don Chisciotte” in cui si esibì al suo ottavo anno, mentre io ero al settimo.
Quali sono le caratteristiche che, secondo lei, l’hanno reso ciò che è stato?
Di certo l’essere un buon partner mi ha aiutato molto. Poi ero indubbiamente un bravo danzatore. Ma ce n’erano tanti come me e anche meglio di me. Come dicevo, la vita in Scala mi ha dato davvero tante possibilità. Balanchine ha montato su di me “Concerto Barocco” e “Serenade”. Ancora prima avevo danzato molti dei suoi capolavori insegnati alla Scala dalla sua assistente: “Allegro brillante”, “Balletto Imperiale”, “Quattro temperamenti”. Lo stesso Serge Lifar, giunto in Scala per montare “Dafne e Cloe”, scelse me e Carla per i ruoli principali. John Cranko, nella sua “Romeo e Giulietta” da rappresentare all’Isola di San Giorgio, scelse me per interpretare Mercuzio. Giulio Perugini era Romeo e Carla Fracci interpretava Giulietta. Quando Perugini smise di ballare, il ruolo di Romeo passò a me. E lo ballai in tutte le recite degli anni successivi al fianco di tante grandi danzatrici: la Fracci, Anna Razzi, Liliana Cosi.
Quelli che visse furono anni rutilanti e pieni. Quali altri aneddoti può raccontarci di quel periodo?
Un episodio simile a quello appena raccontato, avvenne con “Il Lago dei Cigni” di John Field. I protagonisti dovevano essere Fracci e Nureyev. Field lo montò su me e Carla. Io lo ballai fino alle prime prove d’orchestra. Nureyev danzò le prime cinque repliche. Poi subentrai io. Feci tre recite con Carla, tre con Savignano che debuttò con me il ruolo, quattro con Vera Colombo, tre con la Cosi e tre con la Razzi.
Tra le tantissime partner che ha avuto, qual è stata quella con cui ha avuto il feeling maggiore?
Quando si balla con Carla si provano grandi emozioni. La Fracci è un’interprete totale. Con lei non sei un danzatore che deve interpretare Romeo. Accanto a lei sei Romeo.
Lei ha attraversato il mondo della danza in maniera totale. Grandi balletti, coreografi che hanno fatto la storia, interpreti uniche e straordinarie. Riguardando la sua intera vita artistica, come si sente? Come si pone nei confronti di ciò che ha vissuto?
Come una persona che ha qualcosa da dire o da insegnare per chi lo vuol sapere. Non è una mia ambizione far conoscere la mia vita artistica. Se qualcuno vorrà conoscere i miei trascorsi, io li racconterò volentieri. Purtroppo però, l’Italia è un paese che dimentica in fretta. Senza memoria.
Quale, fra tante serate grandiose, è stata quella in cui si è sentito più soddisfatto di sé?
Era il 1962. Mi occupavo delle coreografie delle danze de “La Gioconda” per il Teatro Sociale di Mantova. All’interno dello spettacolo, oltre a coreografare i balletti, interpretavo la notte. Il giorno prima del debutto mi chiamò Francesco Siciliani, l’allora direttore artistico della Scala, e m’invitò a tornare a Milano per ballare “Romeo e Giulietta” con la Fracci. Io avevo imparato solo i primi due atti, il terzo non lo conoscevo per nulla. Insegnai il mio ruolo a un primo ballerino in un’ora e tornai a Milano. Il sabato mattina provai il terzo atto con la sostituta di Carla. E la sera debuttai al posto di Attilio Labis, primo ballerino dell’Operà di Parigi. Fu un momento davvero emozionante.
E il momento che invece ricorda con maggiore tristezza?
Ero a Palermo. Mi occupavo delle coreografie di “Romeo e Giulietta” interpretato da Carla Fracci con la regia di Beppe Menegatti. Oltre a essere coreografo, danzavo nel ruolo di Tebaldo. Dopo un felice debutto al Palazzetto dello sport di Torino iniziammo una lunga tournée che ci portò fino a Palermo. Il protagonista, dopo tre recite, venne sostituito e insegnai il ruolo al danzatore che prese il suo posto. I duelli erano fatti col pugnale anziché col fioretto. Nel duello tra Tebaldo e Romeo, il danzatore sostituto di Romeo si dimenticò la coreografia, mi diede una spinta e caddi male. Si ruppe la tibia, e mi procurai una frattura esposta del malleolo. Nessuno si accorse perché avvenne nel momento in cui Tebaldo viene ucciso. Fui portato al pronto soccorso. Il mattino dopo mi fecero rientrare a Milano. Mi prese in consegna un grande chirurgo, dottor Zerbi, il quale mi salvò. Rischiavo di rimanere zoppo. Dopo una serie di operazioni, feci sei mesi di riabilitazione e dopo nove ho ricominciato a ballare. Il recupero totale fu molto lungo e doloroso.
Cosa accadde dopo?
Alla fine dello stesso anno, mentre ero ancora in convalescenza, il maestro Luciano Schailly mi propose di occuparmi di alcune coreografie all’Arena di Verona, tra cui Aida con la regia di Giancarlo Sbragia. Alla fine di quella stagione mi proposero di prendere la direzione del ballo in Arena. Cappelli era al contempo sovrintendente dell’Arena di Verona e del Comunale di Bologna. E, seppure tra mille difficoltà sindacali, mi offrì anche la direzione del ballo al Comunale. Direzione che ebbi dal Settantotto all’Ottanta. Furono gli anni in cui riuscii a esportare all’estero, per la prima volta con l’Arena di Verona, non un’opera, ma un balletto: Il Lago dei Cigni con Carla e Paolo Bortoluzzi. Fra l’Ottanta e l’Ottantuno creai il primo corpo di ballo stabile in Arena. Rimasi alla direzione per sette anni e feci debuttare un altro grande spettacolo con musiche di Luciano Schailly: Il Diario di Anna Frank, con Oriella Dorella.
Una vita divisa tra interprete della danza e coreografia.
Sì, debuttai nel ‘69 come coreografo al Festival dei due mondi di Spoleto presso il Teatrino delle sette. Uno spazio dove Alberto Testa faceva debuttare i giovani coreografi. Lì coreografai un passo a due con Elettra Morini. E da lì è cominciata quest’altra parte importantissima della mia carriera.
Lei è stato danzatore, coreografo, maestro, direttore di prestigiosi teatri. Qual è il ruolo che le si confà maggiormente secondo lei?
Sono esperienze differenti. Non sempre il buon ballerino è un buon coreografo o un buon maestro. Se tu hai la coscienza che in alcuni casi sei un mestierante e non un artista, riesci a fare bene tante cose. Per esempio, arrivato alla direzione artistica del San Carlo di Napoli, capii che l’unico modo per far bene era quello di occuparmi solo della direzione e non anche della coreografia. In sette anni feci solo una coreografia l’anno in cui mi sono insediato. Rimasi lì per sette anni dal 1990 al 1997. Poi venni via. In sette anni riuscì a passare da due programmi e una media di ventiquattro spettacoli a cinque programmi e una media 130 spettacoli.
Perché decise di andare via?
Quando ti rendi conto di non poter fare di più è meglio lasciare.
Lei ha avuto una carriera totale. Quanto hanno inciso la fortuna e i giusti incontri e quanto l’immenso talento che ha dimostrato di avere?
In Italia il ruolo del danzatore è stato immensamente rivalutato da Nureyev. Il comprimario è diventato un protagonista e un interprete. Rudy ha spianato la strada per una nuova idea del danzatore. E poi l’esperienza insegna. I grandi maestri con cui ho lavorato mi hanno lasciato qualcosa. Ho capito come trattare musicalmente la coreografia. Ho conosciuto sequenze di passi e dinamiche nuove. Di certo gli incontri magici della mia vita hanno favorito, arricchendomi enormemente, tutto il resto.
Oggi i ragazzi hanno, secondo lei, la possibilità di avere a che fare con maestri così grandi come quelli che ha avuto lei nel corso della sua felicissima carriera?
Oggi quasi tutti gli insegnanti e i coreografi riproducono l’intero repertorio attraverso la televisione. Per ballare Balanchine bisogna avere davanti qualcuno che l’ha danzato e vissuto. Altrimenti se ne perde il senso. E avere persone che credono in te, è fondamentale. Mentre ero al San Carlo, ho lanciato Luciano Cannito al quale feci fare il primo grande spettacolo: Marco Polo.
Dopo avere attraversato questi moltissimi anni, arriviamo all’oggi. Parliamo del Premio MAB. Com’è nato?
È nato per commemorare la morte di Maria Antonietta Berlusconi, sorella di Silvio. Proprietaria e fautrice della scuola “Principessa” di Milano, la signora Maria Antonietta era un’amante della danza classica come disciplina specifica. Anni fa è nato il desiderio di renderle omaggio, creando un premio per il balletto classico e neoclassico. Il premio ha il solo fine di aiutare i giovani, senza alcuno scopo di lucro. Il primo step è costituito dalla visione dei video inviati. Sulla base di una prima scelta si accede alla semifinale che si tiene ogni anno in un luogo diverso. E poi si arriva alla finale presso il Teatro Manzoni di Milano. Tutto è totalmente a carico dell’organizzazione MAB. È l’unico premio in denaro realmente consistente. Il più ingente è pari a 4000 euro. Esiste poi un premio speciale destinato alla produzione di spettacoli e ai coreografi più promettenti pari a 30.000 euro e messo a disposizione dal presidente Silvio Berlusconi in memoria della sorella.
Il maestro Fascilla è una fonte inesauribile di racconti e storie bellissime. Una sola intervista non basta per rendere l’idea di quanto, questo grande uomo e artista, abbia fatto nell’arco della sua lunghissima e felice carriera. Bello sarebbe poter leggere su un libro tutta la sua straordinaria vita.