Esiste una Maguy Marin che si muove delicata con morbide zampine di gatto sulle corde più profonde dell’anima e ne esiste anche un’altra che invece ama banchettare nel piatto dell’esistenza, affondandoci dentro le mani fino ai gomiti. Le sue creazioni nascono proprio nel punto di contatto tra queste due entità, su quella linea di confine appuntita e sottile come un crinale dal bordo tagliente.
Esco dalla visione del suo BiT, presentato al Teatro dell’Arte di Milano, con la sensazione di aver assistito all’apocalisse. BiT è il battito di miriadi di cuori, di milioni di catene di montaggio, di migliaia di atti sessuali consumati in ogni istante, di centinaia e centinaia di città che brulicano di vita e fanno un rumore assordante: è il caos, la desertificazione emotiva e la perdita di ogni riferimento. Quante volte possiamo ripetere sempre gli stessi gesti, indossare le stesse maschere, praticare gli stessi culti, prima che questi inaridiscano e si svuotino di ogni significato? L’umanità si trascina allegramente verso l’annientamento, eseguendo ossessivamente una danza macabra, inesorabile come la fine, che ricorda certe danze popolari, come potrebbe essere il sirtaki, una tarantella o una ghironda, ma che nello svilupparsi della drammaturgia scenica sembra quasi assumere la valenza di danza sciamanica rituale, una propiziazione, la possibilità di un nuovo inizio. Perennemente delusa.
L’unione carnale ha perso ogni sacralità per diventare un ridicolo rituale, nel quale femminile e maschile si confondono e perdono la propria identità. Dopo questi sterili accoppiamenti reiterati, ritmici, alla ricerca di una soddisfazione che non arriva mai, ci si allontana gli uni dagli altri, rifiutandosi e scappando via come insetti, piccoli esseri striscianti, impotenti di fronte all’enormità di un’esistenza che non riescono a contenere né a comprendere.
Maguy Marin ancora una volta ci regala una performance intensa e intrisa di vita, offrendoci la sua visione della condizione umana con la grandezza di un filosofo e la sapienza di chi sa bene come si usa la macchina teatrale, un piccolo compendio sulla umanità, creato con grande maestria. L’ispirazione arriva a tratti dai maestri della pittura rinascimentale, nell’uso sapiente delle luci durante le scene di nudo, ma anche dai miti, nei personaggi delle tre parche, che compaiono come visione onirica mentre in proscenio un gruppo di incappucciati, un po’ frati e un po’ massoni, consuma uno stupro di gruppo. Si sente anche la voce inconfondibile di Carmelo Bene che recita il canto 24 del paradiso, prima che il clangore della musica ossessiva copra tutto.
Siamo chiamati ad essere spettatori delle vicende private di una piccola rappresentanza dell’umanità, li vediamo comparire danzando intrecciati, emergendo dalla penombra, avvolti in un suono cupo come un cattivo presagio, muovendosi attraverso una scenografia che occupa praticamente tutto lo spazio, composta da piani inclinati praticabili. Fanno quasi tenerezza, questi piccoli uomini, nei loro goffi tentativi di affannarsi per conquistare un ruolo da interpretare nella giostra delle relazioni, delle convenzioni formali, di darsi un tono anche quando tutto viene inesorabilmente devastato, distrutto, violentato. Provano a ripartire da capo, danzando tutti insieme, tenendosi per mano, intrecciando traiettorie nello spazio, battendo il tempo con le mani per trovare un ritmo da condividere, come a darsi coraggio, come a dirsi: va tutto bene, mentre attorno a loro tutto va in frantumi. Rischiano insieme, danzando su terreni impervi, ed è quasi sorprendente quando la danza si sposta sui piani inclinati, sembra impossibile che riescano a salire fino in cima, si potrebbe quasi pensare di intravedere una speranza in questa simbolica scalata verso l’alto.
Ma non c’è niente che possa andare bene.
Ogni nuovo inizio puzza sempre più di decomposizione, si danza solo perché si deve, come una sorta di dannazione, ma quella che vediamo è una danza di morte, non di vita, queste miserabili creature sono prigioniere del movimento incessante, in mezzo al caos e al rumore, senza più stella polare, non possono far altro che continuare a danzare, poveri demoni, fino all’unica conclusione possibile: oltrepassare il confine e gettarsi felicemente nel vuoto, uno dietro l’altro, fino all’ultimo salto, sul quale il buio arriva a decretare la fine di questo racconto.
Se non ci fosse la convenzione degli applausi alla fine di uno spettacolo potente, magnifico e perfettamente riuscito come questo, il silenzio dopo aver visto la caduta della nostra civiltà, avrebbe potuto essere assordante.
Peccato per chi non era presente in sala per questo appuntamento, che ha riportato finalmente la ricerca di questa straordinaria coreografa nella città di Milano. Il Teatro dell’Arte ha in serbo anche altri appuntamenti interessanti in cartellone, di cui non posso non segnalare Letter to a man, nel quale Robert Wilson dirige Mikhail Baryshnikov, ispirato ai diari di Nijinsky, in scena dal 11 al 20 di Settembre 2015.
Segniamo in agenda!