Kiss & Cry, titolo con cui si è aperto, lo scorso 9 settembre, il Festival Torinodanza, è, nel vero senso dell’espressione, “una storia d’amore e nostalgia, in punta di dita”, proprio perché protagoniste della narrazione sono le dita delle mani.
L’idea è della coreografa Michèle Anne De Mey e del regista Jaco Van Dormael, in creazione collettiva con il danzatore Grégory Grosjean, l’autore Thomas Gunzig, il cameraman Julien Lambert, la set designer Sylvie Olivé e il creatore delle luci Nicolas Olivier, la cui collaborazione ha dato origine a una bellissima creazione che ha letteralmente incantato il pubblico. L’idea, originale nella sua semplicità, si fonda su una riflessione fatta da una donna che attende un treno in una stazione (Torino, recita il cartello, ovvio omaggio alla città che ospita il festival, ma potrebbe essere una stazione di qualunque altra parte del mondo): «Dove vanno le persone quando scivolano via dalla nostra vita e dalla nostra memoria?» Ripensando agli individui incontrati nel passato e alle relazioni che hanno intersecato il loro reciproco cammino la donna si rende conto di non ricordarsi del loro volto, bensì delle loro mani, la cui immagine, ancora vivida, si è conservata nella sua memoria come all’interno di una piccola scatola ben custodita nel tempo e dal tempo.
Le mani rappresentano, nel ricordo della donna, l’intera persona, una parte per il tutto, e sono mani vive, che si muovono, si toccano, si accarezzano, si respingono.
Ciò che rende la performance così originale e interessante è il fatto che queste mani narranti si muovono in microambientazioni costruite dal vivo sotto gli occhi dello spettatore. Un set cinematografico in miniatura, insomma, in quanto la telecamera riprende a distanza ravvicinata le azioni e le storie narrate dalle mani e le proietta sullo sfondo come se fossero un film, rigorosamente in diretta.
Kiss & Cry è una magica poesia in punta di dita, una narrazione che affascina e tocca le corde emotive degli spettatori. Uno spettacolo che merita di essere visto e vissuto e che mescola con combinazioni sempre nuove linguaggi artistici anche molto diversi fra loro.
Non convince, però, il suo inserimento (e, per di più, in apertura) all’interno di un festival, che, come si deduce dalla sua denominazione, dovrebbe essere di danza. Da anni Torinodanza è una manifestazione “poliglotta” aperta alle più ampie sperimentazioni e alle più svariate ricerche, orientamento assolutamente meritevole e al passo con i tempi, ma viene da chiedersi se quello che chiamiamo “contaminazione” non debba, talvolta, porsi dei limiti. Da uno spettacolo inserito nel cartellone di un festival di danza ci si aspetterebbe di vedere almeno un po’ di danza appunto, mentre in questo caso risulta quasi impossibile riportare la performance a qualunque definizione che si avvicini a quella del termine “danza” senza che risulti una terribile forzatura.
Forse le etichette stanno diventando troppo strette e riduttive, o forse bisognerebbe rivalutare alcune definizioni, pena il rischio che un più generico “performance” (che spesso non richiede nemmeno la presenza di ballerini) fagociti tutti i linguaggi e le arti di cui, di fatto, si nutre.
Crediti fotografici: Maarten Vanden Abeele