Lienz Chang: “A Napoli mi sento a casa. E poi c’è il mare, come nella mia Cuba.

di Giada Feraudo
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Un gentlemen della danza, com’è stato definito. E non solo della danza. Un gentlemen a tutto tondo, come se ne incontrano pochi. Nella magnifica cornice della platea del Teatro San Carlo di Napoli, che rievoca fasti e splendori d’altri tempi, il Maestro Lienz Chang, maître de ballet e direttore del corpo di ballo del Teatro, racconta la sua esperienza di danzatore e con i danzatori, fra passato, presente e progetti futuri.

Nel corso della Sua carriera Lei ha studiato e lavorato a contatto con grandi personalità della danza come Alicia Alonso, Nureyev e, soprattutto, Roland Petit. Qual è stata la cosa che ognuno di loro Le ha lasciato in eredità?

Alicia Alonso è per me come una vera e propria madre nella danza. Ha dedicato gran parte della sua vita a trasmettere ai giovani tutta la sua esperienza e io ho trascorso molto tempo con lei. Prima di essere una ballerina Alicia è soprattutto un essere umano ma come danzatrice posso dire che mi ha davvero insegnato tutto ciò che so dell’arte e della tecnica del passo a due: come poter sollevare una donna, come farle fare una pirouette nel modo corretto. Questa grande esperienza mi è servita negli anni: grazie ai suoi insegnamenti io ho sempre ballato senza difficoltà con qualunque ballerina. Roland Petit, che io considero alla stregua di un padre, sempre riferendomi alla danza, mi ha portato in Europa e mi ha avviato alla carriera da solista quando ho lasciato Cuba. Per me questa è stata un’occasione molto importante perché lui mi ha insegnato molto e mi ha dato opportunità uniche: oltre che danzare i suoi balletti ho avuto anche il privilegio di essere suo assistente. Nureyev è invece il simbolo della tecnica maschile, è un modello che tutti i ballerini dovrebbero seguire per essere tecnicamente e artisticamente forti.

Queste tre figure hanno quindi avuto per Lei un ruolo importantissimo nella Sua formazione.

Sì, tutti e tre sono stati miei insegnanti: devo a loro tutto ciò che della mia esperienza posso ora trasmettere alle nuove generazioni. 

Quanto è importante la formazione di un ballerino? Quale pensa sia il modo migliore di lavorare su un giovane per portarlo poi alla carriera?

Prima di tutto per essere bravi ballerini si deve avere una bella base classica, acquisita con dei buoni maestri. Quando ci sono questi presupposti è molto più facile lavorare e far crescere un giovane che arriva in una compagnia. Quando un ballerino inizia in età più avanzata è un po’ più difficile, c’è molto più lavoro da fare, anche se in tal caso i buoni risultati denotano talvolta un merito maggiore. Il danzatore che ha una formazione tradizionale, e con questo intendo gli otto anni regolamentari di accademia, ha forse maggiori possibilità di continuare il suo percorso di crescita rispetto a chi inizia dopo, anche se non ne è garanzia assoluta. 

Crede che mettere la propria personalità in ciò che si sta facendo sia qualcosa che si può insegnare?

Quando si fa la selezione di un ballerino per un ruolo è perché quel ballerino ha delle caratteristiche particolari, adatte a tale ruolo. Questo naturalmente facilita il lavoro in seguito. Dopo aver imparato la parte è importante che il danzatore trovi un significato a ciò che sta ballando. Se parliamo di Giselle, tanto per fare un esempio, bisogna capire perfettamente anche tutto il contesto in cui si ambienta e si svolge la vicenda, ma non è tutto: ogni ballerino deve sapere anche ciò che sta facendo l’ultima fila del corpo di ballo, perché deve sempre essere presente in tutto e per tutto nella storia e nel personaggio. Solo così può comprendere davvero ciò che il coach gli insegna anche attraverso le parole. Nel mio lavoro di maître mi sono trovato a contatto con danzatori che hanno la capacità di assimilare tutto ciò, e questo è molto importante. Qui in teatro lavoro con giovani molto capaci, che capiscono velocemente quello che si spiega loro verbalmente e hanno la capacità di esprimerlo. 

Continuando a parlare di ruoli, qual è stato il Suo preferito in quanto danzatore?

Nel repertorio classico il personaggio che preferivo danzare è sempre stato Albrecht. Se parliamo invece di Roland Petit allora direi il personaggio di Le jeune homme et la mort, il ruolo maschile per eccellenza. Ce ne sono altri ovviamente, sempre parlando dei lavori di Roland, ma sono davvero contento di aver avuto il privilegio di danzare quest’ultimo. 

Cosa Le hanno lasciato i ruoli che ha interpretato?

Mi hanno fatto crescere in una maniera incredibile. Roland Petit, poi, ha fatto una creazione per me: ha creato il ruolo de l’Homme noir ne Le lac des cygnes, per me di un’importanza fondamentale. Credo sia stato questo il punto più alto della mia carriera.

Un momento della carriera che ricorda in modo particolare?

Tutto ciò che ho vissuto nel corso della mia carriera lo ricordo in modo positivo, anche ciò che è apparentemente negativo, perché credo che perfino dalle esperienze meno belle si possa imparare qualcosa di buono. Uno di questi momenti particolari è con Roland. Eravamo a Marsiglia e, al termine dello spettacolo, Il lago dei cigni, andammo a cenare con tutta la compagnia. Lui mi prese per un braccio e mi disse: “Chapeau. Sei un gentleman della danza”. Queste parole mi hanno accompagnato per tutta la vita, sono molto personali. 

Da ormai qualche mese Lei è al San Carlo come maître e, per il momento, riveste anche la funzione di direttore del ballo. Sicuramente un doppio ruolo impegnativo. E’ soddisfatto del lavoro svolto in questo periodo, corrisponde alle aspettative iniziali?

Sono molto contento di questa grande opportunità che il sovrintendente del teatro, Rosanna Purchia, mi ha dato circa un anno e mezzo fa, e penso di aver raggiunto tutti gli obiettivi che mi ero prefissato. Dopo soltanto sei mesi di lavoro, quando abbiamo presentato Giselle, ho visto che la compagnia era diversa, era pronta. Da quel momento ho potuto apprezzare una crescita costante. Io ho messo a disposizione dei ballerini tutta la mia esperienza: loro mi ripagano con una gran voglia di lavorare e di migliorare sempre. Grazie a questo impegno costante e reciproco abbiamo costruito qualcosa insieme ma io non posso realmente prevedere un obiettivo definito perché si può sempre migliorare. 

In Italia quando si parla di balletto generalmente si pensa sempre al corpo di ballo della Scala, il San Carlo rimane forse un po’ in ombra, a discapito della sua lunga tradizione.

Non è così vero: da quando sono qui posso dire di aver sentito parlare molto del corpo di ballo del San Carlo, forse anche grazie allo sforzo che i ballerini stanno facendo per crescere, unito alla partecipazione della critica e dei giornalisti, che seguono assiduamente gli spettacoli e lo sviluppo della compagnia. Credo che questo sia molto importante e che si possa fare ancora di più.

Quanti titoli di danza ci sono in cartellone per la stagione in corso?

In questa stagione ho inserito sei titoli: Otello, la mia coreografia Spanish Dance, Carmen, Lo Schiaccianoci, Coppelia di Roland Petit e Romeo e Giulietta. Il prossimo anno spero di poterne avere sette.

Come lavora sulle coreografie?

Normalmente ascolto la musica prima di tutto. Posso immaginarmi una base coreografica in una fase precedente ma in realtà il lavoro vero e proprio lo faccio in sala con i ballerini: ascoltiamo insieme la musica e con loro presenti inizio a coreografare. Mi piace esplorare le loro possibilità e talvolta mi capita di inserire nella mia coreografia dei passi che propongono loro quasi per gioco. Il discorso cambia un po’ quando devo coreografare dei balletti da inserire all’interno delle opere: in questo caso a volte trovo utile fare riferimento, oltre che al testo e al contesto dell’opera stessa, che naturalmente sono fondamentali, anche ad altre coreografie create in precedenza, per essere in sintonia anche con i cantanti e con gli altri elementi dell’opera. È un lavoro nuovo per me in quanto non avevo mai affrontato l’opera prima di arrivare qui, ed è totalmente diverso dal mettere in scena un balletto vero e proprio.

Cosa ne pensa dei nuovi direttori, di recentissima nomina, dei corpi di ballo dell’Opéra di Parigi e del Teatro Alla Scala? Le polemiche che hanno suscitato queste nomine non sono poche.

Innanzitutto credo che spesso le scelte ai vertici dei teatri seguano anche delle regole di marketing più che delle vere e proprie ragioni artistiche. Aurélie Dupont è stata a lungo étoile della maison ma bisognerà vedere come se la cava come direttrice perché è la prima volta che riveste un incarico del genere: prima di lei avrebbe potuto essere nominato Laurent Hilaire, che era peraltro già stato assistente della precedente direttrice, Brigitte Lefèvre, oppure Manuel Legris. Sono però convinto che ci sia sempre una prima volta per tutti, quindi vedremo come andrà. Aurélie ha tutte le possibilità per svolgere un buon lavoro. Non vedo una svolta conservatrice, come alcuni hanno affermato, nelle parole di Aurélie Dupont, che ha dichiarato di voler portare ancora più titoli classici nella stagione dell’Opéra: del resto l’Opéra Garnier, come il Bolschoi, è un grande tempio della danza classica. Per quanto riguarda La Scala, secondo me un teatro così grande e prestigioso ha bisogno di un direttore sempre presente, concentrato sulla direzione. Trovo piuttosto sterili le polemiche sollevate sul fatto che Bigonzetti venga da una realtà contemporanea e con pochi elementi in rapporto alla Scala come è quella dell’Aterballetto: credo piuttosto che fare il direttore di un corpo di ballo del genere e nello stesso tempo essere un coreografo di fama internazionale siano due ruoli molto difficili da conciliare. Nella mia esperienza personale, soprattutto attuale, so quanto sia difficile fare il direttore ma anche il maître e magari il coreografo allo stesso tempo: i lavori di Bigonzetti sono nel repertorio delle compagnie di tutto il mondo e ciò significa che lui deve viaggiare per andare a seguire il montaggio e la messinscena, togliendo tempo prezioso e necessario all’incarico di direttore. 

Cosa crede potrebbe essere migliorato nel panorama della danza italiana?

Parlando in generale è un peccato che in Italia non ci sia un maggiore appoggio per la danza. Peccato perché è bello per il pubblico assistere ad un balletto: qui a Napoli, ad esempio, il teatro è sempre pieno quando c’è la danza. Sembra un’assurdità ma quando si vuole presentare un evento bello e di sicuro successo molto spesso si inserisce la danza, mentre i tagli vengono sempre fatti in primis sull’arte di Tersicore. Trovo che questa sia una vera e propria contraddizione.

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