Luciano Cannito: “i limiti sono fatti per essere affrontati e superati”

di Francesco Borelli
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Non dimentica Luciano Cannito le sue origini dalle quali ha tratto voglia e tenacia di diventare qualcuno in un mondo bello, bellissimo, spesso idealizzato ed altrettanto spesso mendace ed illusorio. Accade quando la vita, la poesia, si scontra con la realtà quotidiana, il romanzo, che si svolge, giorno dopo giorno, vissuto tra difficoltà ed incertezze, tra conquiste e successi, tra illusioni e sogni destinati a morire all’alba.

Tempo fa lessi un suo post su FB in cui diceva: “Al momento ho in tour cinque spettacoli, tre in Italia e due all’estero. Non male per un ragazzino che ha iniziato lavorando ai mercati generali”. Ci racconta quel periodo?

Avevo solo sedici anni e mio padre morì improvvisamente d’infarto. Esordisce così, Luciano Cannito. La mia famiglia, composta di una mamma che non lavorava e tre fratelli di cui due all’università, si trovò in una condizione di grande difficoltà. Mio padre era pastore in una chiesa protestante e conducevamo una vita semplice, ma dignitosa. Venendo a mancare lui e necessitando di più soldi, cominciai a lavorare al mercato generale delle scarpe di Napoli dove, in quel momento, vivevo. Mi alzavo alle 4,30 del mattino, lavoravo e poi alle 8:30 iniziavo la scuola. Nel pomeriggio, invece, mi dedicavo alla danza presso la scuola di Mara Fusco dove, oltre a studiare, per guadagnare ancora qualche soldo, suonavo il pianoforte durante le lezioni di danza classica.

Scrissi quel post perché in un mondo così snob, come quello della danza e del balletto, dove è sempre stato importante appartenere a formazioni già costituite o essere amici di… ci sono state persone, come me, che arrivavano dal nulla.  Ma che ce l’hanno fatta.

Ci racconta i suoi inizi legati allo studio della danza?

Ricordo che mi recai alla scuola di Mara Fusco che in quel periodo era una delle migliori e più selettive d’Italia. Dopo il primo provino la signora Fusco mi disse che non ero assolutamente portato per la danza. Forte del mio desiderio di riuscire  le risposi che quando si desidera fortemente qualcosa, prima o poi, si riusciva ad ottenerla. Il giorno del mio diploma, la sig.ra Fusco, dichiarò pubblicamente di essersi sbagliata. E che i limiti erano fatti per essere affrontati e superati.

Ritiene che “lo stile è un limite alla fantasia”. Qual è il punto di partenza delle sue creazioni?

Parto da un presupposto. Nella letteratura esistono il romanzo e la poesia. Accade, oggi, nel mondo della danza che si produca moltissima poesia e pochissimo romanzo, pur essendo quest’ultimo il genere più letto.

A mio parere tutto questo è in controtendenza rispetto alla direzione in cui il mondo volge. Stiamo, ancora una volta, rendendo la danza un’arte d’elite. Bellissima per carità, ma per pochi. Pensare ad avere solo una danza astratta, sopra le nuvole,  significa –  ritornando al paragone con la letteratura – leggere solo i versi di una poesia. Ben sappiamo, però, che è il romanzo a essere maggiormente letto.

Quando inizio a creare un balletto, mi pongo dalla parte del pubblico. Una famiglia che viene a teatro a vedere uno spettacolo probabilmente sta facendo dei sacrifici per vedere ciò che io, autore dello spettacolo, gli propongo. Il mio rispetto per quella famiglia deve essere assoluto. Lo spettacolo deve essere fatto per il pubblico che è uscito da casa non per soddisfare il mio ego. Il mio compito è raccontarti una storia, far rivivere sulla scena racconti e personaggi.

Il punto di partenza – quindi – è raccontare una storia, aderente a un racconto.

Esattamente. Subito dopo c’è la musica. Deve essere adatta alla storia che voglio condividere col pubblico e coinvolgente. Infine il movimento. Le faccio un esempio. Se metto in scena “Amarcord” ambientato negli anni 30, la coreografia risponderà a un determinato tipo di movimento. Se invece creo uno spettacolo come “Marco Polo” ispirato alle “Città invisibili” di Calvino, la coreografia risponderà a esigenze differenti. Cambia la storia, cambiano i costumi, cambia di conseguenza il movimento. L’autore deve avere l’umiltà di mettersi a disposizione dello spettacolo.

Crede che il suo background culturale l’aiuti a essere sempre all’altezza delle storie che racconta? A suo parere capita che molti coreografi, soprattutto delle ultime generazioni, manchino di cultura e preparazione?

Ritengo si debba studiare, sempre. Ho appena finito di leggere un libro sui fratelli Wright, gli inventori dell’aeroplano. Hanno iniziato costruendo le biciclette e, poi, grazie alle proprie capacità hanno elaborato il sistema di volare. Dissero questa frase: “I nostri guadagni migliori sono arrivati sempre quando abbiamo inseguito la maggiore conoscenza piuttosto che il maggiore potere”. Hanno investito tutto nello studio, arrivando poi al successo e al potere.

Nel nostro ambiente non si può rimanere chiusi in una sala prove. E questo vale per i coreografi e per i danzatori. Bisogna nutrire la mente oltre che il corpo. Esistono coreografi più bravi di me per quanto riguarda il movimento e ne sono consapevole. Ma ciò che ho raggiunto, ogni traguardo e successo, viene anche e in gran parte dalla mia necessità di riempirmi di studio e di conoscenza.

Cantastorie, in riferimento a chi fa il suo lavoro, è una parola che amo moltissimo. Luciano Cannito si identifica in questa?

Probabilmente sì. Le mie origini, semplici, mi portano a identificarmi con l’immagine di un signore che in una polverosa strada siciliana racconta ai passanti delle storie in un afoso pomeriggio d’estate. E’vero però, che pur raccontando in maniera semplice una storia, io passo per un’assoluta profondità. Dietro ai miei racconti c’è un mondo intero. Fatto di studi, approfondimento di linguaggi differenti dalla danza,  con grandissima attenzione e rispetto.

Le manca il modo in cui era vissuta la danza un po’ di tempo fa?

Moltissimo. Seppure oggi sia impossibile proporla in quei termini. Spesso mi capita di parlare con politici, uomini legati alla gestione della cultura e col tempo mi sono accorto che, di base, non c’è una regia volta a sminuire la danza nel nostro paese fino a farla sparire, ma semplice sciatteria. Ci sono stati sovraintendenti che non erano uomini di teatro. Personaggi politici incompetenti che dovendo fare dei tagli colpivano quella che secondo loro era la forma di spettacolo meno vista. Ho vissuto e lavorato in Germania. Attualmente è una delle potenze economiche più forti al mondo. Tutto è dominato da un forte pragmatismo. Ebbene, la Germania possiede 60 teatri e 60 corpi di ballo. In Italia si segue una tendenza opposta. E questo è un vero peccato!

Che tipo di danzatore era?

Amavo molto il balletto classico. Ma non ne avevo le caratteristiche pur con una buonissima scuola. In scena però mi si notava. Avevo una grande generosità. A volte penso che io Luciano Cannito, se mi fossi visto in un’audizione, non mi sarei mai preso. Ma avrei sbagliato. Ho imparato che esistono danzatori con meno doti, ma altrettanto interessanti e con grandi qualità. Magari musicali, svegli e intelligenti. Se devo riconoscermi un talento dico che la mia maggiore qualità sta nel riconoscere il talento altrui. Io non ho certezze. Un autore è pieno di dubbi, s’interroga continuamente su se stesso e sulla qualità di ciò che crea. Ma vedo il guizzo negli occhi degli altri, riconosco le persone speciali.

Lei si ritiene una persona di potere?

Assolutamente no. Il periodo che viviamo, da un punto di vista politico, è molto strano. Quasi come se avere potere faccia parte della nostra vita. La meritocrazia ha perso la propria importanza. Ma non dimentico chi sono, le mie origini e le difficoltà che ho affrontato per arrivare a fare il lavoro che amo. Se avessi potere potrei fare molto di più per la danza in Italia. Ho onestamente molte persone che mi stimano. Ma non basta.

Si definisce, lei,  un autore anziché un coreografo. Qual è la differenza?

Credo che i coreografi debbano avere più consapevolezza dell’importanza di essere autori. La parola “coreografo” sembrerebbe indicare una persona esclusivamente interessata al movimento del corpo. Quando si mette in scena uno spettacolo tu, coreografo, inserisci la tua opera in una dimensione più grande che si chiama arte. E inevitabilmente ti confronti con uno scrittore, un compositore e tutte le categorie autoriali che per quello spettacolo, direttamente o indirettamente hanno lavorato. Essere un autore ti responsabilizza molto di più rispetto alla semplice seppur difficoltosa ricerca di un bel movimento.

Qual è stato il primo balletto che ha creato e quale l’ultimo?

“Passi falsi” è stato il primo. Per l’ultimo invece devo fare una piccola premessa. A Livorno, alcune scuole di danza anziché farsi la guerra si sono unite tra loro e mi hanno contattato. E’ stata indetta un’audizione generale cui si sono presentati tantissimi allievi. Ho scelto una serie di ragazzi e ho elaborato un progetto che si chiama www.alice.it. Ha debuttato l’8 maggio scorso ed è stato un bellissimo esperimento che può rappresentare un esempio per tante situazioni indipendenti che non hanno fondi dagli enti pubblici.

Che differenza c’è tra “Passi falsi” dei suoi inizi e www.alice.it?

C’è una differenza abissale. Prima ero un coreografo e adesso sono un autore.

Che cosa cerca e quali qualità deve possedere la prima interprete delle sue creazioni?

Di certo, la prima cosa che guardo è la qualità di movimento e la tecnica. La protagonista deve avere le caratteristiche ballettistiche consone al tipo di lavoro che devo affrontare. Appena assunto che la danzatrice ha le giuste qualità ciò che è importante per me è la generosità nel lavoro. Quando danzi devi dare tutto te stesso. E fare la differenza rispetto agli altri danzatori. Ciò che è fondamentale è quello che secondo me è il paradosso della danza: guardo ciò che non si vede. E’ l’amore che metti nelle cose che stai facendo. Non ti stai preoccupando del piede o della gamba ma stai dando concretezza e vita a un’emozione.

Cosa l’ha reso più orgoglioso?

Recentemente ho debuttato al Bolshoi con un mio lavoro. Alla fine dello spettacolo ci sono stati dieci minuti d’applausi. Sembravano non finire più. Non dimenticherò mai quel momento. Dietro le quinte poi, venne un signore, probabilmente un’importante figura della società russa perché al suo passaggio si fecero da parte tutti. Mi disse che la mia coreografia su quella determinata musica era la più bella che avesse mai visto. E concluse dicendo: “Noi dobbiamo dire grazie a voi italiani.  Avete inventato la danza e ce l’avete regalata”.

Sembra una persona “intatta”, sincera e per nulla costruita. E’ un suo modo d’essere oppure c’è una dietrologia che accompagna le sue parole?

In un mondo abituato a parlar male di tutti, dominato dall’invidia e dalle false amicizie, essere come sono sembra fantascienza o ruffianeria. Ma io, davvero, credo fortemente in ciò che dico e nelle energie positive che le persone mi donano e di cui amo circondarmi. Sono un uomo come tutti, rido  e piango, a volte soffro e tante altre ho avuto momenti difficili. Alcuni mi vogliono bene altri no, alcuni mi apprezzano, altri mi criticano. Ma io cerco sempre il bello e il buono in ogni cosa e in ogni persona.

Se oggi pensa a quel ragazzino che si svegliava alle 4:30 del mattino e che aveva in testa tantissimi sogni. Si ritrova?

Mi fa tanta tenerezza. E di lui mi ricordo molto bene. Era pieno di passione e di vitalità. E credeva che di fronte a lui ci fosse un mondo infinito che aspettava di essere visto e conquistato. Ciò che dico sempre alle forze politiche e di non spegnere le passioni dei ragazzi ma di investire in esse. Perché investendo nei sogni di quei ragazzini di sedici anni, si creano forze lavoro e migliorie per il paese. E poi dico una cosa: se ce l’ho fatta io, ce la possono fare tutti.

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