Lia Courrier ci racconta la vita, danzante e non, dei ballerini. Torna SetteOtto

di Lia Courrier
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La vita di un danzatore è costellata da momenti molto diversi tra loro, non solo nel corso della lunga crescita personale come artista e professionista, ma anche nello scorrere stesso di ogni singola giornata. Consideriamo in questa riflessione solo quello che riguarda la vita lavorativa, tenendo questo spazio ben separato da ciò che accade al di fuori da questo ambito, giacché questo è un mestiere come un altro, una professione, e mi piace pensare che le persone facciano un lavoro e non siano quel lavoro: faccio il danzatore, non sono un danzatore, o meglio, non sono solo questo, ma anche un’appassionata di letteratura, di cinema, di cucina, di passeggiate in natura, un’attivista animalista, una figlia e molto altro.

Quando un danzatore si identifica totalmente nel suo ruolo, senza lasciare spazio ad altro, credo stia camminando su un pericoloso crinale, al di là del quale è possibile anche perdere quei delicati equilibri che consentono di vivere in armonia con un mestiere già di per sé così totalizzante, precipitando in un baratro da cui può essere molto difficile uscire. Esistono danzatori celebri che hanno immolato l’intera loro esistenza alla danza, al riconoscimento del pubblico, al proprio successo, e più la fama è grande, più aumenta l’attaccamento a quello status e, di conseguenza, la dipendenza dal lavoro. Una vita straordinaria può forse giustificare la dedizione totale, in ogni molecola, in ogni istante, ma a quale altissimo prezzo?

In generale io trovo molto sano conservare una distanza di sicurezza da ciò che si fa,  per disporre  una certa lucidità critica nei propri confronti, che non sia egoica o autodistruttiva, e soprattutto per lasciare che la vita al di fuori delle ore di lavoro continui pienamente, includendo relazioni amicali e  sentimentali, altre passioni e interazioni sociali, che ci permettono di restare con i piedi ben radicati per terra. Vivere in modo appropriato ogni fase della nostra esistenza danzante può essere d’aiuto in questo senso, per conservare presenza e per utilizzare al meglio le nostre energie.

Lo spettacolo è il momento finale del nostro lavoro, durante il quale l’organismo produce un vero e proprio bagno chimico elettrificato, come conseguenza della stimolazione del sistema nervoso ortosimpatico, permettendoci di utilizzare al meglio le nostre energie per comunicare con il pubblico, lasciar esplodere il nostro corpo attraverso la danza, mantenere concentrazione e controllo. Si tratta di una prova ardua per il nostro organismo, che richiede molte risorse per poter essere gestita, e questo si capisce bene nel momento in cui l’effetto dell’adrenalina scompare e la stanchezza prende possesso delle membra, accompagnata da tutti i dolori che prima non potevamo sentire. È sicuramente il momento in cui si è maggiormente proiettati verso l’esterno, in questa volontà, espressa da tutto l’intero essere, di estendere il proprio campo energetico verso lo spettatore.

Poi ci sono le prove, che richiedono al danzatore di spostare il punto di vista. Si, certo, si danza sempre con la medesima energia e precisione che ci si prefigge di avere anche in scena, ma sicuramente l’assenza del pubblico influisce moltissimo sullo stato di attenzione, che in questa fase mantiene una buona percentuale rivolta verso l’interno, per ascoltare, migliorare i dettagli, restare aperti e connessi a ciò che emerge dalle profondità del corpo. Qui ancora si ha la possibilità di ripetere ciò di cui non si è convinti, trovare sempre nuove soluzioni, affinare e perfezionare sempre di più man mano che si va avanti con il processo creativo. Senza quel potente catalizzatore che è il pubblico, che crea un fortissimo vortice di energia tra il palco e la platea, i danzatori possono dedicarsi a sé stessi e alla propria danza, liberi da quell’anelare alla perfezione estetica che automaticamente preme, a qualche livello, quando si è sulla scena.

E poi esiste il mio momento preferito: lo studio. Durante la lezione il danzatore è solo con l’insegnante. Certo, si studia solitamente in un gruppo in cui ognuno, con il proprio apporto, sostiene il lavoro degli altri, ma il punto di osservazione sulla danza, durante una sessione di studio, è  un po’ quello della ricerca solitaria. Credo che il momento di studio sia costituito essenzialmente da un movimento verso e attorno alla linea di confine, ai nostri propri limiti del momento, con l’idea di riuscire ad osservarli, conoscerli e spostarli un po’ più in là. Non esiste routine nello studio, ogni giorno ci si pone con l’idea di scoprire qualcosa di nuovo anche nei movimenti che sono stati fatti migliaia di volte: se ci si annoia a fare questo allora accadrà anche in scena, all’ennesima replica dello stesso spettacolo, se già nello studio non siamo stati capaci di sorprenderci ogni giorno. Gli abiti sono un dettaglio da non sottovalutare: minimali, capelli in ordine, nessun orpello o trucco troppo vistoso che possa distrarre o mascherare il proprio corpo. Nessun inganno, ma solo essenza. La lezione è il momento in cui non dobbiamo preoccuparci di nient’altro se non di noi stessi, delle indicazioni del maestro e della danza che si mostra attraverso il nostro corpo. Qui l’attenzione è maggiormente rivolta all’interno. Nonostante la pratica di studio sia solitamente collettiva, quindi, trovo che la lezione costituisca un prezioso momento privato del danzatore, che indisturbato entra in contatto sempre più intimo e profondo con il proprio Sé danzante.

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