“Mimì è una civetta”: una Bohème tra ricerca e sperimentazione

di Alessandra Colpo
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Le lancette di un orologio proiettate sulla scenografia segnano il passare del tempo, una donna rincorre una bambina, quasi come a voler fuggire al proprio destino e rincorrere la propria giovinezza.

Si apre così il divertissement à la bohémienne “Mimì è una civetta”, andato in scena sabato 5 novembre presso il Teatro Municipale di Piacenza. Né un’opera né un musical, dimenticatevi ogni riferimento a “Rent” e “Moulin Rouge”, e preparate la mente a qualcosa di nuovo.

Un ottimo esperimento di ricerca dell’opera lirica dentro il musical (o del musical dentro l’opera lirica) in cui la tradizione ha una forte dominante, ma lontano dal poterlo definire “Musical” secondo i canoni della tradizione di Broadway e West End.

Nonostante gli studiosi riconoscano nell’europeissima Bohème una delle radici nobili del musical americano (basti pensare all’influenza della struttura musicale tipica di Puccini sulla pratica di creazione, integrazione e uso del reprise) lascia con un senso di smarrimento il tentativo di Cristina Mazzavillani Muti nel far rivivere l’opera pucciniana attraverso i canoni di Broadway.

Parigi, anni ’20. L’eterna storia d’amore di Mimì e Rodolfo e dei loro scapigliati e squattrinati amici torna in scena nella forma di opera musical. Il lavoro sul libretto di Illica e Giacosa elaborato dalla Muti in collaborazione con Anna Bonazza è stato fondamentale per trasformare i versi nelle battute del copione togliendo il sostegno musicale. Il linguaggio ha mantenuto la matrice ottocentesca ma con qualche attualizzazione contemporanea (“voi” diventa “tu” e “suo” diventa “tuo”).

La partitura originale di Alessandro Cosentino, d’altro canto, si astrae sia dall’impronta sonora ottocentesca che da quella prevedibile dell’ambientazione anni ’20 voluta dal regista Greg Ganakas. Ritmi swing e jazz si alternano a suoni elettronici e si introducono strumenti come la fisarmonica e la chitarra flamenca, non presenti nelle pagine operistiche.

Via via che lo spettacolo procede ci si allontana sempre di più da Puccini per avvicinarsi alle sonorità del nuovo millennio: col primo quadro più in linea con lo spartito originale, il secondo una fusione di generi differenti dal flamenco al gipsy jazz, il terzo aperto alle avanguardie novecentesche e l’ultimo ricco di percussioni rock e di distorsioni elettroniche.

Il disegno registico è un esplicito omaggio agli ultimi anni ‘20 e alle sequenze dei film muti, ma recitazione canto e danza non riescono ancora ad amalgamarsi come il genere richiede: le coreografie (troppo minimali per la vasta gamma di sonorità presenti) si distaccano dalla scena e non legano la narrazione.

L’idea e gli spunti sono innovativi, a partire dal disegno luci di Vincent Longuemare, le video proiezioni di Davide Broccoli e l’interazione di personaggi e musicisti con la platea, ma a fine rappresentazione si percepisce una mancanza a livello narrativo, come se tutto si fosse concluso troppo in fretta.

Menzione particolare per il poliedrico Luca Marconi nel ruolo di Rodolfo, l’unico in scena che ha grande padronanza di tutte le discipline tanto da essere stato richiamato nel 2016 per “Notre Dame de Paris” di Zard.

Per essere una coproduzione tra Ravenna Festival-Teatro Alighieri di Ravenna, Fondazione Teatri di Piacenza, Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Teatro del Giglio di Lucca, Teatro Comunale di Ferrara e Teatro Regio di Parma gli spunti non sono mancati, ma con l’importante base di partenza si poteva sicuramente rischiare di più.

Crediti fotografici: Silvia Lelli

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