“Il tango della Vecchia Guardia”, un romanzo di Arturo Perez Reverte

di Vittoria Maggio
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“…ci sono i tanghi per soffrire e i tanghi per uccidere…gli originali facevano soprattutto parte di quest’ultima categoria …..Tango della Guardia Vieja, della Vecchia Guardia, lo chiama qualcuno, …un vecchio tango si chiamava così ….tanghi veri, da ballare, con il loro ritmo rapido e i loro cortes al momento giusto…non quelle schifezze da salotto diventate di moda grazie a Parigi…l’autenticità stava nella vecchia gente di campagna: sarcasmo malandrino, impertinenza da ruffiano o da femmina rodata, cinismo burlone….li non servono poeti e musicisti raffinati…il tango era fatto per rimorchiare una donna abbracciandola o per fare baldoria con gli amici…il tango era, per riassumere, istinto, ritmo, improvvisazione e testi spinti!”

Qualche anno fa, fui attratta da un libro di un noto scrittore e giornalista spagnolo famoso per i suoi romanzi tra lo storico e il thriller: Arturo Perez Reverte.

Il titolo dell’ultimo romanzo era diverso dai precedenti e soprattutto veniva incontro al mio mondo tanguero al quale mi stavo affacciando: Il tango della Vecchia Guardia, copertina invitante, autore conosciuto, titolo curioso.

Lo divorai credo in 48 ore: una storia d’amore lunga un trentennio, dai primi anni ’30 agli anni ’60 ambientata a Buenos Aires, Nizza e Sorrento, tra un affascinante argentino squattrinato ballerino di tango e una giovane nobildonna spagnola ricca e sposata.

Sono descritte in modo suggestivo ed esauriente le atmosfere autentiche del tango argentino che molti di noi ancora oggi si immaginano, se si staccano da quella che poi è diventata l’aria assolutamente borghese del tango.

L’amore impossibile fra Max Costa e Mecha Inzunza si snoda tra le pulsioni vissute attraverso le loro figure durante il ballo:

“E così si muovevano entrambi, con incontri e allontanamenti, torsioni del busco calcolate, intenzioni reciproche che consentivano di scivolare con naturalezza sulla pista”.

Nel loro tempo infinito, Max e Mecha si perdono e si ritrovano più volte, senza essere mai al posto giusto nel momento giusto. É un eterno infinito ritorno come l’ocho, uno dei passi fondamentali del tango che disegnato a terra è il simbolo matematico dell’infinito stesso.

Forse anche questa è una caratteristica del tango: la sensazione di non stare mai nel posto giusto, io sono qui, ma questo posto non lo sento mio, frutto della cultura dell’emigrazione, delle persone che sono andate via per vivere meglio da un’altra parte, ma che portano con sé la memoria dolorosa della loro terra e delle loro origini, le loro radici e il loro infinito andare e venire.

Il  tango affonda le sue radici in tutto ciò: i famosi anni della Guardia Vieja che vanno dal 1880 al 1920 vedono incontrarsi per forza, perché non fu una scelta se non obbligata, un crogiolo di persone, con le più diverse storie dentro le valigie, a condividere la stessa zona geografica vicino ai porti del Sud America dove sbarcavano dopo settimane di navigazione oppure arrivavano forse a cavallo o forse a piedi dalla campagna, dalla periferia argentina.

Buenos Aires, Montevideo e Rosario, nelle stanze strette e affollate dei “conventillos”, attendevano queste nuove genti che senza soldi e con poche speranza davano inconsapevolmente nuova vita alla terra Argentina.

Gauchos, africani, emigrati italiani, spagnoli, francesi e non solo, donne e uomini, bambini per lo più dai volti tristi e già anziani nel loro sentire…organetti, chitarrine, flauti, percussioni, solo più tardi i violini, portati dagli emigrati delle est Europa, e il bandoneon arrivato al porto un bel giorno, col suo suono dal colore nostalgico e melanconico.

Milonga, malambo, candombe, habanera, tango spagnolo….tutto si mescola insieme con un unico scopo: stare insieme e darsi allegria e giocosità l’un con l’altro, oppure a volte sfida e lotta coi vecchi coltelli multiuso, il facón, per marcare il proprio terreno, difendere il proprio commercio losco e i primi interessi personali.

La sfida è anche uno dei leit motiv del libro di Perez Reverte. Così come era una sfida sopravvivere alle difficoltà della nuova sconosciuta vita Argentina.

La musica placa l’animo e le ansie dell’anima, ha il grande potere di distogliere dalle avversità, di ridare speranza è far guadagnare qualche soldo: nascono così nei cortili dei conventillos i primi improvvisati musicisti che forse non sapevano nemmeno leggere o scrivere la musica che veniva quindi tramandata oralmente.

El Pibe Ernesto, violinista attaccabrighe, col suo tango Don Juan del 1895; Homero Manzi compone  El ultimo organito nel 1849; Rosendo Mendizabal col primo tango pubblicato El Entrerriano nel 1892 o forse 1898 chissà; Angel Visoldo, un musicista un po’ matto, che creò uno dei tanghi più famosi della storia El Choclo nel 1903; Vicente Garrote Greco con la sua prima orchestra tipica nel 1911; El Pacho Maglio famoso per le sue stranezze e per i suoi dischi; El Tigre del Bandoneon, al secolo Eduardo Arolas, creatore degli splendidi El Marne e Derecho Viejo, morto nel 1924 a soli 32 anni.

Oppure i più longevi e noti Roberto Firpo e Francisco Canaro, che nella fortuna dei loro 85 anni il primo e 76 anni il secondo, nascono come Guardia Vieja e hanno l’opportunità di seguire e agire sulla trasformazione del tango nei decenni successivi.

I tanghi citati non furono certo dimenticati nel tempo, anzi furono infinitamente  ripresi, arricchiti e riarrangiati dai tanti noti musicisti che amiamo ballare oggi in milonga.

“La vita è un tango infinito” dichiarò Arturo Perez Reverte in un’intervista e noi umilmente invece diciamo Finché c’è tango c’è vita!

E come sempre buon Tango a tutti, a chi lo balla, a chi inizierà a ballarlo, a chi lo ascolterà oppure lo guarderà, a chi lo ama e a chi lo rifiuterà e male ne parlerà… A chi ha la voglia di vivere insomma!

Un abbraccio!

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