Nello studio della danza, è giusto spingersi oltre le proprie capacità fisiche e tecniche? Ce ne parla Lia Courrier

di Lia Courrier
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La nostra società è basata sull’individualismo e sulla venerazione della figura epica dell’eroe che, solo, si avvia verso la sfida catartica, superata la quale riuscirà a realizzare il proprio ambizioso obiettivo. Per questo fin dalla prima formazione ricevuta, sia dai genitori che dalla scuola, veniamo educati all’idea che avere coraggio e determinazione siano indispensabili per la realizzazione personale, e che questo voglia dire essenzialmente oltrepassare costantemente il proprio limite. Ecco cosa viene richiesto alle persone vincenti: superare impavidi i propri limiti senza colpo ferire, ad ogni costo, eliminando ogni tentennamento.

Ce la farai perché volere è potere. Quante volte mi sono sentita dire questa frase, che punta il dito sull’orgoglio personale, sul timore di essere umiliati da un fallimento, sulla paura di non essere all’altezza del compito da svolgere o di non avere abbastanza determinazione. Tutti sentimenti, questi, che non si sposano bene con la possibilità di apprendere ed evolversi in una condizione di consapevolezza e lucidità.
Nello studio della danza, spesso viene infusa questa spinta a fare qualcosa per cui non ci si sente pronti, portati al limite della resistenza oppure oltre le proprie capacità fisiche e tecniche. Sebbene ogni tanto sia necessario fare il passo un po’ più lungo della gamba, per rendersi conto di esserne in grado, a volte questa corsa cieca per andare oltre a tutti i costi, può anche spezzare l’allievo con frustrazioni che diventeranno difficili da gestire o, nei casi peggiori, con il verificarsi di infortuni di varia entità: la corda è stata troppo tesa e non ha retto.
Io credo che questa filosofia dell’eroe, che molto spesso l’allievo adotta anche senza pressioni da parte dell’insegnante, sia un po’ come saltare un muretto senza prima assicurarsi che oltre ci sia il suolo o un baratro. Prendi una rincorsa troppo forte e balzi così in alto che, quando riesci a vedere al di là, ormai è troppo tardi per fare alcunché, mentre se prima ti fossi affacciato un momento per valutare la situazione forse avresti potuto ponderare l’azione migliore da fare per andare al di là della linea di confine, in sicurezza.

Un grande insegnamento che la pratica dello yoga mi ha donato è proprio quello di agire insieme al limite e non contro di esso, poiché ciò che viene percepito come limite, sia esso fisico che emotivo, altro non è che una informazione che il nostro corpo ci trasmette per indicarci una via. Qualora ci venga chiesto di andare in una direzione in cui sentiamo che il nostro corpo comunica dolore, paura o disagio, quindi, la cosa più saggia sarebbe quella di restare in ascolto e di valutare se non sia il caso di seguire le indicazioni che provengono dal nostro sentito, più che quelle date dall’insegnante, chiunque esso sia. Non c’è nessuna offesa personale in questo, anzi, si tratta di una dimostrazione di maturità nello studio, nonché di una importante assunzione di responsabilità che a volte è molto dura da acquisire, poiché è sempre più facile delegare agli altri, in questo caso agli insegnanti, piuttosto che fare un atto di fiducia nei confronti di sé stessi e dei propri strumenti acquisiti.

Lavorare insieme al limite, e non contro di esso, vuol dire spingersi nella zona di confine, verso quel muretto, restando un certo tempo in osservazione. Contemplare quel paesaggio, definirne ogni dettaglio, testarne la consistenza e la forma, localizzarne l’esatta posizione, senza mai agire d’impulso. L’incontro con il limite è un raffinato processo di autodifesa che va ascoltato e rispettato e non considerato come un impedimento per la propria realizzazione. L’evoluzione non procede su un percorso lineare, ma anzi, si basa proprio su una certa reattività alla resistenza, senza la quale nessuna crescita sarebbe possibile.
Non è importante superare a tutti i costi i propri limiti, quanto piuttosto essere capaci di vederli, poiché se riusciamo a farlo allora possiamo cominciare ad operare tutte le necessarie negoziazioni per aprire un varco, restando nel processo, ascoltando ogni piccolo cambiamento nella nostra relazione con quel determinato limite, fino al ristabilirsi organico di un nuovo bilanciamento, più vantaggioso per entrambi.

Questo fa la differenza tra un processo di apprendimento e una arrogante invasione, dettata dalla sete di conquista che arde la gola dell’ego, sempre pieno di aspettative e di impulsività, goloso di risultati imminenti. Il mio invito, quindi, è quello di aiutare gli allievi, con modi e parole adeguate, ad accogliere i propri limiti, imparando ad affrontarli con intelligenza, senza giudizio e  frustrazioni, rassicurandoli con la certezza che tutti i danzatori del mondo, anche quelli che sembrano proprio non averne, si trovano su quel territorio di confine, giorno dopo giorno, perché quello è il vero luogo di lavoro per chiunque voglia apprendere.

Anche noi insegnanti, in prima persona, dovremmo aver elaborato ogni personale conflitto con i nostri propri limiti. Quando si parla di insegnamento non dobbiamo mai dimenticarci che prima di poter agire sugli allievi dovremmo precedentemente aver lavorato su noi stessi, e questo a volte può dimostrarsi una sfida ardua da accettare, in particolare se noi stessi siamo stati formati con il metodo dell’arrembaggio, ma non è mai troppo tardi per abbandonare le vecchie abitudini, qualora ci rendiamo conto che queste non ci fanno ottenere ciò che vogliamo: allievi consapevoli, sicuri e felici.

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