L’ansia dello stage estivo raccontata da Lia Courrier

di Lia Courrier
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Nella stagione estiva, proprio nel momento in cui mi sento come uno scalatore che ha appena ridisceso la parete rocciosa dopo aver conquistato la vetta, felice di essere sopravvissuto alle tormente di neve e al freddo, non posso ancora permettermi di mollare le scarpette nel cassetto perché un’ultima, importante e faticosa fase dell’anno mi aspetta: gli stage estivi. Bellissime occasioni che per me rappresentano però motivo di preoccupazione.

Uno dei fattori che rendono questo momento particolarmente arduo è sicuramente il caldo torrido che arroventa le città durante i mesi estivi, negli ultimi anni in modo quasi insostenibile. Normalmente gli stages si svolgono in città di mare (qualche volta, ma più raramente,  anche in montagna) per consentire ai genitori che accompagnano i figli a studiare danza di concedersi anche qualche giorno di relax. Peccato che io detesti il mare d’estate, luogo in cui normalmente vado in giro il meno possibile e abbigliata alla stregua di un vampiro contemporaneo: cappello, occhiali scuri, maniche lunghe e ombrellino parasole. Non ricordo quando è cominciata la mia fotosensibilità, forse è l’avanzare dell’età, ma fatto sta che soffro moltissimo il caldo e quanto più il sole si alza nel cielo, tanto più stento quasi ad aprire gli occhi. Se la temperatura si avvicina ai trenta gradi mi sento la testa scoppiare come se avessi la febbre, divento un po’ nevrotica e sudo tantissimo. Più sudo e più divento nevrotica.  No, decisamente l’estate non è la mia stagione preferita.

Un altro fattore è la difficoltà a concentrare in poche ore di lezione un kit di informazioni che possano essere trasferite e comprese, per lasciare agli allievi qualcosa su cui lavorare anche da soli.

Da sempre la mia scelta di insegnamento si è rivolta alle formazioni professionali, progetti in cui posso seguire l’allievo per un tempo minimo di otto mesi, ossia la durata media di un anno scolastico. Questa modalità risponde ad una mia personale esigenza di poter disporre di un tempo sufficiente per svolgere il mio lavoro secondo i miei standard. Se vengo messa nelle condizioni di avere poco tempo il mio sistema ortosimpatico comincia ad accendersi: combattimento o fuga? Probabilmente in una vita passata ero un bradipo, o comunque un orsetto morbidoso goffo e lento, per questo ho bisogno di più tempo rispetto agli altri per fare qualsiasi cosa, dall’alzarmi dal letto alla mattina al fare uno scatto per sollevarmi da terra in un salto. Nel mio lavoro mi piace  sapere di potermi dilungare in spiegazioni, chiarimenti, approfondimenti. Adoro quando gli allievi alla fine della lezione mi fanno qualche domanda, perché poi vado a casa e mi preparo una risposta per la lezione successiva. Apro dibattiti con loro, utilizzando tempo prezioso per chiederci da dove arriva il movimento, e come potrebbe essere sentito in modo più completo dal corpo. Poi si incanala tutto questo in una lezione dinamica e ritmata, nella quale verifichiamo insieme se la ricerca fatta ha portato frutti utilizzabili o meno. Questo chiaramente è un processo che richiede  principalmente tempo, continuità e costanza.

Ovviamente può accadere che gli allievi dopo un anno, addirittura due o più in alcuni casi, sentano la mia voce ormai come una nenia noiosa che quasi passa in secondo piano, come un rumore di fondo, entrando in una routine nella quale anche io vengo trascinata. Conosco molto bene sia loro che la loro danza, e quindi ci si abitua un po’ reciprocamente, come una vecchia coppia che crede di aver capito tutto dell’altra persona. Quando si percepisce di essere entrati in questo tipo di empasse, devo sempre escogitare qualcosa per risvegliarci dall’incantesimo e riaccendere le miccie.

Lo stage estivo è tutta un’altra cosa.

C’è più entusiasmo in classe, più curiosità da parte degli allievi verso qualcosa che esula dalle proprie abitudini. In questo caso io rappresento l’uscita dalla routine. Sono convinta che, a prescindere dal codice a cui tutti facciamo riferimento, esiste una visione su un movimento quanti sono i danzatori al mondo che lo eseguono, è quindi chiaro che la mia proposta (così come quella di chiunque altro possa esserci al mio posto) viene percepita come una novità da chiunque non mi conosca. A qualcuno piacerà, ad altri meno, ma di sicuro il loro cervello e il corpo saranno chiamati a fare qualcosa di diverso e quindi stimolante. Sono disponibili e tesi a carpire quanto più possono carpire da quegli istanti trascorsi insieme.

Questo mi mette addosso una certa pressione, devo dare un bello scossone alla mia pellaccia da orsetto morbidoso per poter essere all’altezza della richiesta e delle aspettative. Dare fondo a tutta la mia capacità di azione e sintesi per riuscire a scegliere su quali argomenti lavorare, senza farmi sviare strada facendo da quello che vedo, altrimenti rischio di non arrivare al punto. Normalmente preparo la lezione per poi lasciarmi andare un po’ al sentimento della giornata e del gruppo, al loro umore, alle loro necessità. Nella situazione dello stage estivo, invece, rimanere ancorata al metodo è inversamente proporzionale al numero di ore a disposizione. Meno ore faccio più cerco di diventare un orologino di precisione che non sgarra un secondo, cercando di infondere energia e ritmo alla lezione.

E voi? Qual è la vostra organizzazione in questi casi?

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