La sapienza all’improvviso

di Lia Courrier
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Alzi la mano chi non è andato a fare un corso estivo di danza anche quest’anno?

Scommetto che avrete trovato il modo per farcene scappare almeno uno, se vi conosco bene.
Senza danza troppo a lungo non si può stare, no? E allora quale periodo migliore di quello estivo per concedersi una immersione totale per qualche giorno, ubriacarsi di lezioni, informazioni, correzioni, conoscere nuovi amici e nuovi maestri?

Spero proprio abbiate trovato delle situazioni interessanti in cui vi siate portati a casa almeno un nuovo concetto o una nuova abilità su cui continuare a lavorare.

Studiare danza. Una cosa che spesso negli appuntamenti estivi, però, non si riesce proprio a fare bene, ed è questo l’argomento che vorrei sviscerare oggi.

Ai giovani danzatori piace molto collezionare nomi sul curriculum di studi. Sono alla direzione di una formazione professionale e ciò che accomuna moltissime candidature che riceviamo sono proprio queste liste infinite di nomi di insegnanti, in cui di solito quelli più ‘famosi’ sono evidenziati in grassetto. Lo facevo anche io all’inizio, riportando con modalità oltremodo maniacale ogni insegnante con cui avessi studiato anche per una sola lezione. Ci si nasconde un pochino dietro a questa sfilza di nomi, e probabilmente si crede  davvero all’illusione che basti aver studiato con qualcuno per qualche giorno, per aver acquisito chissà quale sapienza. Oggi vorrei che il mio curriculum fosse un foglio bianco, negli anni ho tolto praticamente quasi tutti i nomi delle persone con cui ho studiato o lavorato, preferendo piuttosto parlare di me e della mia visione della danza. Se potessi non lo scriverei neanche, perché nulla mi rappresenta più della mia lezione, quindi se qualcuno desiderasse conoscermi davvero sarebbe meglio che lo facesse osservandomi lavorare. Ma queste sono cose che arrivano con l’età e con l’esperienza. Da giovani si dà importanza ad altro.  Ad ogni modo, chi organizza i corsi estivi è consapevole di questa caccia al nome e quindi già a partire dalla tarda primavera parte il martellamento delle pubblicità, con i nomi di personaggi del mondo dello spettacolo scritti a caratteri cubitali. Una mossa commerciale neanche tra le più abili e creative, ma così funziona il mercato da sempre e un vecchio detto recita che “cavallo che vince non si cambia”. C’è da dire anche che viviamo in una cultura che ha fatto della velocità il proprio modo di essere, e dell’abbondanza la propria terra promessa. Spesso si punta a offrire un numero di lezioni molto elevato, con un corpo docente estremamente affollato, e credo che questa formula sia per certi versi anche positiva, perché molti contenuti possono essere condivisi, tanti stimoli diversi ricevuti, e diversi metodi provati sul proprio corpo. Il problema, però, è che il pubblico a cui si rivolge questo genere di evento è formato spesso da persone che hanno iniziato da poco a studiare danza, o comunque da allievi che non hanno alle spalle e sul corpo un bagaglio formativo adeguato per poter sfruttare al meglio questo tipo di situazioni.

Spesso gli insegnanti vedono gli allievi per due o tre giorni al massimo, per lezioni che durano solo un’ora e mezza, un tempo troppo limitato per poter approfondire alcunché, e in queste condizioni purtroppo, anche cercando di dare il massimo, non si resta che sulla superficie delle cose, non c’è modo di restare nei concetti abbastanza a lungo, non c’è tempo da spendere per capire, non tanto con la mente, ma con il corpo. Questo aspetto, secondo me, fa spesso di queste esperienze delle occasioni mancate. Mancate per gli insegnanti, che non riescono a trasmettere che una piccolissima parte della propria ricerca e del proprio sapere, e mancate per gli allievi, che alla fine saltano da un lavoro all’altro senza quella consapevolezza necessaria per far si che le nuove abilità imparate restino nel tempo. Dispersione di energia, tempo e risorse, insomma.

Mi è capitato molte volte di insegnare in contesti di questo tipo, alle volte mi è addirittura stato chiesto di insegnare in una scuola per una sola lezione, e le prime volte ho anche provato ad accettare, ma poi ho capito che questa modalità non è adatta al tipo di lavoro che amo proporre. Sono sempre felice che una scuola mi inviti per insegnare ai propri allievi, ovviamente, è un bel riconoscimento tutte le volte, ma sono anche consapevole di come per le scuole questo rappresenti spesso uno sforzo economico e organizzativo, e quindi credo sia onesto da parte mia declinare l’invito qualora secondo me non ci siano le condizioni minime per poter fare un buon lavoro. Per la mia esperienza, tre giorni di lavoro, con lezioni della durata di due ore, sono il minimo possibile per poter trasmettere qualcosa che venga compreso e ricordato. Non mi sento molto a mio agio a far semplicemente muovere corpi nello spazio, anche il ‘come’ per me ha una sua importanza basilare, così quando individuo nel lavoro degli allievi delle possibili aree di miglioramento, delle indicazioni che potrebbero dare dei risultati nell’immediato per rendere il movimento più efficace, non ce la faccio proprio a passare oltre, sento l’irresistibile istinto di fermare la classe e cominciare a sperimentare i concetti, e per fare questo ci vuole tempo. Eh si: decisamente non sono una creatura che appartiene a questa epoca in cui tutto corre veloce, forse vivo in una idea obsoleta della faccenda, ma per me le cose che maturano nel tempo restano sempre quelle più gustose. Voi che ne pensate?

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