Lia Courrier: “La tecnica è il fine ultimo da raggiungere per un danzatore, oppure un mezzo?”

di Lia Courrier
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La danza di questo secondo millennio possiede una forte connotazione estetica.

Svela la nudità cruda del corpo e mostra i muscoli.

Porta la tecnica e il virtuosismo in cima alla lista di priorità.

Non contempla la vecchiaia e la morte.

Non è sempre così, per fortuna, ma credo che questa tendenza sia sotto agli occhi di tutti.

Il fraintendimento più grave in cui possiamo inciampare, in qualità di spettatori, insegnanti o allievi, è proprio quello di pensare che la padronanza della tecnica sia il fine ultimo da raggiungere per un danzatore, quando invece si tratta solo di uno strumento che consente di esprimere un messaggio. Un mezzo, insomma, non un fine.

Il corpo del danzatore è un corpo politico.

Un corpo che non teme di urlare a gran voce l’unicità di chi vi dimora.

Il corpo del danzatore è un’entità totalmente incastonata, intessuta nella trama e nell’ordito della cultura che lo accoglie e che dovrebbe vederlo come elemento portatore di parola e di concetto.

Il corpo del danzatore ribadisce la propria visione del mondo ad ogni respiro, ad ogni gesto.

Non è possibile scindere il corpo del danzatore dal bagaglio intrinseco di chi lo abita: il suo racconto di individuo, la sua cultura, le sue idee e i suoi ideali, nonché la storia della specie. Pensare che la danza sia solo una riproduzione in alta fedeltà di intricate evoluzioni corporee vuol dire ridurre il danzatore ad un automa degno dell’immaginario di Philip Dick, un replicante a sangue freddo dall’apollinea bellezza, ma che non dispone di libero arbitrio sul suo pensiero e sui suoi desideri. Un giocattolo ad uso e consumo dello spettatore che vuole sollazzarsi e intrattenersi ammirando quel portento della tecnica, in grado di ripetere, ogni sera, gli stessi prodigi senza sforzo e con precisione cristallina.

Madre Natura non conosce il concetto di riproduzione seriale, di simmetria, di infallibilità.

E’ proprio questo a renderla viva, unica e autentica in ogni sua manifestazione: la certezza che dove esiste la vita esiste anche la morte. Dove esiste la bellezza lì ci sarà anche l’abisso.

Un’idea di perfezione che include il difetto.

La danza è fatta di energia, non di corpo. O meglio: il corpo è un fedele riflesso del campo energetico del danzatore. La sua vibrazione, la sua radianza, la calda pulsazione del suo sangue, le incertezze, il senso del rischio, la paura, l’ironia: tutte questioni puramente umane che rendono il danzatore un essere vivente e soprattutto pensante. Il danzatore non esegue ma esprime.

Mi chiedo spesso se il modo in cui vengono concepite le formazioni professionali, in numero esorbitante oggi sul nostro territorio, sia davvero funzionale al mantenimento di questa biodiversità, così importante per il bene e la vitalità della danza stessa. Da quando ho cominciato la mia avventura nel campo dell’insegnamento, mi sono sempre chiesta se questi progetti formativi siano davvero in grado di consentire ad un artista di realizzare se stesso. Tutte le lezioni frontali nelle quali il maestro assegna ogni movimento, dalle sequenze di riscaldamento e studio fino alla coreografia finale, nelle quali non viene chiesto altro se non di riprodurre quei gesti il più fedelmente possibile, seguono un metodo che si possa ancora considerare valido? Oppure siamo giunti al punto in cui bisognerebbe valutare anche altri fattori, alla luce di quanto osservato? Possiamo ancora trasmettere la danza con un approccio che tende ad omologare, anziché esaltare la diversità come un segno peculiare da valorizzare?

Immagino lo studio della tecnica, persino quella del balletto, come un’occasione per invitare l’allievo ad avere un approccio analitico nei confronti dell’apprendimento, per stimolare la capacità di ascoltarsi, di vedersi davvero, per comprendere in ogni istante qual è il suo posto nei confronti del gruppo, del mondo, della danza. Aiutarlo ogni giorno a capire perché si trova lì. Sto parlando di farsi domande affatto scontate. Mi capita spesso di chiedere ai miei allievi che tipo di danzatore vorrebbero diventare, e perché hanno scelto di danzare. So che sono domande difficili, ma le risposte che arrivano, per la maggior parte, mi lasciano perplessa per la poca chiarezza e progettualità che riscontro in persone che hanno un’età nella quale, nel resto del mondo, si dovrebbe già essere quasi pronti per il lavoro. Una parte di loro rinuncia ancor prima di aver fatto sul serio, da un lato spaventati da questa forte richiesta fisica e tecnica che la danza di oggi mostra prepotentemente; ma anche in risposta ad un pensiero, molto più diffuso di quanto si possa immaginare, secondo cui o si diventa il più bravo danzatore del mondo oppure non vale neanche la pena di tentare. Non ho ancora capito se questo ragionamento venga da loro o se è indotto dal contesto in cui vivono, o da alcune modalità di trasmissione di noi insegnanti: vorrei soltanto non venisse mai tolta ai ragazzi la possibilità di sognare, poiché avere un sogno concreto in testa è già l’inizio di una realizzazione. La cultura della danza nel nostro paese è pressoché nulla e anche gli studenti più appassionati spesso non conoscono il volto della danza del loro tempo. Siamo ancorati ad un passato cristallizzato, congelato, come in un tableaux vivent, che continuiamo a tenergli davanti agli occhi, impedendo loro la visuale di un paesaggio più allargato e onnicomprensivo di ciò che la danza è oggi.

Del suo significato etico, più che estetico.

Quando abbiamo di fronte allievi che aspirano alla professione, noi insegnanti siamo chiamati a posare su di loro uno sguardo puro e non giudicante, che sia in grado di vedere davvero chi sono queste persone, senza proiezioni che deformino la percezione, creando per loro un ambiente protetto e sicuro nel quale possano esprimersi, nella loro unicità. Insegnandogli a danzare senza spegnere quel nucleo vitale che vibra in loro, per crescere artisticamente in modo sano. Questo ovviamente richiede che gli insegnanti continuino a studiare, ad avere un approccio aperto e lontano da vecchi schemi mentali e didattici. Infine è necessario che il programma di studi preveda tanti momenti in cui ci sia spazio per questi processi fondamentali per la persona e per il danzatore che sarà.

L’equilibrio è sempre un luogo complesso in cui fluttuare.

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