È andato in scena nelle scorse settimane, al Teatro Regio di Torino, lo spettacolo conclusivo della Stagione d’Opera e Balletto 2018-2019, un dittico che ha visto in scena due capolavori che hanno come protagonista la Sicilia: si tratta del balletto La Giara, coreografato da Roberto Zappalà, e a seguire l’opera Cavalleria Rusticana, di Pietro Mascagni, con la regia di Gabriele Lavia.
Un interessante contrasto, sia stilistico sia cromatico, fra le due produzioni: moderna e coloratissima quella di Zappalà, tradizionale e quasi monocromatica quella di Lavia.
La serata si è aperta con La Giara; in scena dieci danzatori uomini, che per tutta la durata del pezzo (circa 40 minuti) non escono mai di scena e non si fermano mai. Parlando di Zappalà si è preparati a vedere qualcosa di poco tradizionale ma qui la chiave di lettura è totalmente stravolta. Non aspettatevi di vedere, e soprattutto di riconoscere, la Sicilia dei racconti verghiani, o personaggi quali Don Lollò, il proprietario della giara, e Zi’ Dima, il conciabrocche. Se vogliamo, in questa creazione siamo tutti un po’ Zi’ Dima, sia i danzatori sia gli spettatori, in quanto l’azione non si svolge fra l’interno e l’esterno della giara ma è tutta dentro al grande contenitore. Nessuno esce, tutti danzano sempre all’interno e solo ogni tanto qualcuno si avventura sui bordi, limiti estremi dello spazio, cambiando in quel momento il proprio movimento.
La Sicilia è qui rievocata dai vivacissimi accademici colorati indossati dai danzatori, che subito rimandano ai colori dei pittoreschi carretti siciliani e che, nello stesso tempo, spiccano con un notevole contrasto sul resto della scenografia, costituita unicamente dallo spaccato della giara, aperta con un taglio diagonale che permette agli spettatori di vedere lo spettacolo, e con il quale Zappalà vuole evocare il taglio del parto cesareo, in quanto la sua giara non è soltanto un semplice oggetto di scena ma costituisce la scena stessa, una sorta di ventre all’interno del quale viene concepita e prende forma la creazione, dando come risultato la danza stessa. Una danza molto viscerale, possente, legata alla terra, rimando alla mascolinità del mondo contadino, in certi punti quasi rituale, che utilizza un flusso di movimento continuo, quel “lava flow” che è il punto di partenza del linguaggio stilistico di Zappalà.
Con “lava flow” (che, sotto certi aspetti, ricorda e riprende i principi della tecnica Gaga), il coreografo intende un movimento che non si arresta mai e che coinvolge tutto il corpo, un po’ come quello della lava dell’Etna, che scorre vischiosa e lenta ma senza mai fermarsi.
In questo contesto, afferma Zappalà, la giara non è un luogo da cui fuggire, bensì un luogo di accoglienza, in cui tutto sommato ci si sente protetti, un po’ come nel ventre materno. Non a caso infatti nella novella di Pirandello Zi’ Dima, a un certo punto, non vuole più uscire dal contenitore: vi si trova bene, vede la luna in un certo modo, perché è solo cambiando il proprio punto di vista che si può osservare il mondo con occhi nuovi, e riscoprirlo.
Sotto l’aspetto musicale il lavoro, commissionato sull’omonima partitura di Alfredo Casella, avrebbe dovuto, secondo il progetto originale di Zappalà, includere anche delle musiche elettroniche ma in seguito è stato deciso di rispettare la presenza dell’orchestra dal vivo e il suo ruolo. Il torinese Alfredo Casella, compositore cruciale per la rinascita della musica italiana nel primo Novecento, creò infatti, nel 1924, una godibilissima partitura per il balletto ispirata alla novella di Pirandello. È uno dei suoi lavori più famosi e si inserisce nell’ambito di un progetto volto al recupero della musica italiana del Novecento, che il Teatro Regio porta avanti da alcune Stagioni, che quest’anno ha preso forma scenica con la creazione di Zappalà.