L’equilibrio è difficile da trovare e ancor più da mantenere.
Lo sanno bene i ballerini, che si allenano ogni giorno per sviluppare questa capacità.
Stare in equilibrio sulle dita di un piede è un processo più o meno lungo, che non risiede solo nel corpo fisico, ma anche nella capacità di sedare la mente e rimanere in una sorta di sospensione, mentre le forze che attraversano il corpo si bilanciano reciprocamente. L’equilibrio in realtà non si trova mai, perché è impossibile rimanere fermi, si può però evitare di perderlo continuando a muoversi, ribadendo quelle azioni ancora e ancora in ogni istante.
Ma l’equilibrio non è solo faccenda da ballerini, tutti noi ogni giorno proviamo a destreggiarci nella danza della vita, cercando di mantenere un equilibrio psichico, emotivo e anche fisico, nonostante le sferzate degli elementi e degli eventi, a sabotare continuamente la nostra ricerca.
Nei suoi “Yoga Sutra” Patanjali scrive che la postura per la meditazione dovrebbe essere “sthira sukham”, queste due parole, difficilmente traducibili in modo adeguato, potrebbero significare che la posa risiede in un punto di equilibrio tra sforzo e abbandono, laddove ogni sofferenza causata dalle coppie di opposti cessa. In altre parole si tratta, ancora una volta, di trovare un punto di equilibrio tra il troppo e il troppo poco, un luogo in cui non sentiamo attrazione verso nessuna direzione e possiamo rimanervi indisturbati.
In qualità di formatrice da ormai due decenni posso dire che comincio a percepire qualche scomodità nel mio ruolo, frizioni dovute al passaggio del tempo. Non mi riferisco al cedimento progressivo del corpo, che è una realtà ineluttabile con cui tutti noi dobbiamo fare i conti, ma al fatto che la società sta cambiando ad una velocità ormai fuori controllo, e il contesto culturale che mi appartiene comincia ad essere considerevolmente distante da quello dei miei allievi.
Sono arrivata ad un momento del mio percorso in cui so di aver acquisito validi strumenti e saperi, dal punto di vista tecnico e didattico, ma anche di avere una visione del lavoro che poco si allinea con le necessità del momento. Non riesco a trovare il mio equilibrio tra queste che non chiamerei proprio polarità, ma che nel mio sentito fanno sorgere conflitti.
Trovo che in generale la nostra società sia afflitta da bulimia informativa, abbiamo la tecnologia e le risorse economiche per poter accedere ad ogni tipo di pratica, insegnamento, tecnica, disciplina, divertimento, informazione. Qualcuno potrebbe obiettare che non godiamo di tutte queste ricchezze, ma se apriamo il nostro sguardo sul mondo, anziché solo sul nostro contesto europeo-occidentale, persino un bambino si renderebbe conto di quanta opulenza possediamo in confronto ad altre culture e società.
Io, che faccio persino fatica a fare la spesa negli ipermercati perché davanti a tutta quella offerta mi sento ubriaca e non so cosa scegliere, che sono sempre stata abituata a fare una cosa alla volta andando a fondo di ogni suo aspetto, mal sopporto la voracità del nuovo millennio, figlia di una società dei consumi che poco s’interessa della provenienza del prodotto o di dove andrà a finire dopo l’utilizzo, preoccupandosi solo del suo possesso, almeno fino a che non arriverà qualcosa di più appetibile su cui spostare la brama.
La formazione coreutica comincia ad assorbire questa tendenza: ci si immerge in quante più cose si possono fare, con il corpo e la mente che vengono letteralmente bombardati da milioni di input, spesso diversi tra loro, ad una velocità che non sempre consente di andare a fondo delle questioni, delle vere ragioni del movimento o di quella ricerca in particolare. Provo a osservare i nuovi bisogni, i nuovi appetiti e capisco le ragioni di questo tipo di approccio, così radicalmente coerente con le tempistiche contemporanee. In realtà, a guardare bene, non potrebbe essere che così, considerata anche la forma e il movimento della mente digitale, però mi rendo conto di non avere gli strumenti per lasciarmi andare nel flusso, perché la disciplina che insegno, il balletto, non può in nessun modo essere fruita nella sua forma più pura se non con le tempistiche richieste da una tecnica antica, tramandata da secoli pressoché nello stesso modo proprio perché per comprenderla, apprezzarla e padroneggiarla ha bisogno di tempo.
In effetti i percorsi formativi per il balletto sono ancora articolati su otto anni di Accademia, durante i quali gli allievi apprendono tutto ciò che bisogna sapere per affacciarsi sul mondo del lavoro: dalla tecnica all’interpretazione, dai salti alle punte, dai passi a due alle variazioni. Diverso è per le formazioni professionali di altro tipo, altrettanto valide ma agenti verso altri obiettivi.
Probabilmente è vero che in questo bombardamento di informazioni non si riesce a scendere in profondità, a prendersi il tempo per capire con il corpo e non solo con la mente, fare esperienza di quel movimento in modo totale, ma forse questo non è un aspetto che interessa i giovani artisti e quelli del futuro. Ciò non vuol dire che non possano essere ugualmente validi, significativi e pregnanti sulla scena creativa contemporanea, vuol dire solo che sono differenti da coloro che li hanno preceduti, che la loro visione si basa su altre premesse. Posso immaginare come il non riuscire ad apprezzare molte creazioni che vedo sia dovuto al semplice fatto che non risuonano con il mio vissuto e la mia storia, ormai appartenenti ad un altro contesto che non esiste più. In questi anni con la danza ho assistito a tante trasformazioni, persino alla caduta del dogma che per essere un danzatore devi per forza studiare balletto (finalmente), quindi mi considero una persona con una mente molto aperta, ma sento una certa difficoltà ad adattarmi agli spazi che questa nuova concezione mi consente di abitare.
Il tempo è una coperta troppo corta e non puoi che scegliere cosa tenere al calduccio, scordandoti di poterti coprire completamente. Una storia di negoziazioni, questa, con il tempo, lo spazio e con gli studenti stessi, che non sempre sono disposti a rimanere focalizzati con la propria mente per un’ora e mezza su un materiale che ai loro occhi potrebbe persino non essere neanche da considerare danza, ma solo una serie di esercizi da fare perché si deve. Non è un giudizio, questo, ma solo un’attenta osservazione di quello che avviene ogni settimana davanti ai miei occhi. È chiaro che in un programma di studi organico ci siano discipline che si amano più di altre, mica la prendo come una faccenda personale, solo mi chiedo come fare, usando un detto molto comune nella nostra lingua, a “salvare capre e cavoli”: insegnare danza classica accogliendo le nuove tendenze ma senza tradire la mia storia e la mia etica.
A voi capita di fare questi pensieri?