Nella realtà in cui viviamo siamo continuamente sollecitati da immagini differenti. In questo scenario l’immagine, soprattutto come fattore strutturale della cultura contemporanea, rappresenta uno strumento privilegiato anche per la comunicazione del corpo danzante.
La fotografia e la danza sembrano occupare poli opposti: se la prima implica immobilità e delimitazione dentro i confini dell’immagine, la seconda si configura come un’espressione dinamica nello spazio e nel tempo. Come riesce la fotografia a negoziare tra la fissità dell’immagine e la dinamicità spazio-temporale del movimento? In primis dobbiamo considerare l’atto fotografico come una costruzione attiva dalla natura ibrida in quanto lo scatto del reale è frutto anche di scelte, dell’uso delle tecniche, di un processo di elaborazione esercitato da coloro che hanno in mano la macchina fotografica. Questi elementi applicati per la fotografia di danza non restituiscono la percezione globale della realtà ma soltanto una parziale lettura.
Nel corso della storia della fotografia di danza, i fotografi hanno intrapreso percorsi molteplici per tradurla in segni visivi capaci di esprimerla e di comunicarla. Procediamo con l’analisi di queste differenti modalità avvalendoci dell’excursus che Massimo Agus delinea nel testo Immaginare la danza. Corpi e visioni nell’era digitale, a cura di Vito Di Bernardi e Letizia Gioia Monda. A cavallo tra Ottocento e Novecento, a causa di una tecnica fotografia troppo lenta e ingombrante, le immagini sono prevalentemente pose statiche scattate negli studi dei fotografi. A questa modalità appartengono le immagini dell’Après-midi d’un faune di Vaclav Fomič Nižinskij nell’album prodotto nel 1912 da Adolf De Meyer. Queste fotografie riescono a restituire un senso di movimento perché rappresentano i gesti più adatti a restituire il senso della danza. A tal proposito, la successione delle posizioni rappresentate rispecchiano la sequenza coreografica. Novità assoluta sono le immagini che rappresentano frammenti di corpo così da restituire la plasticità dei movimenti e le attitudini psicologiche dei personaggi.
Successivamente si registra il tentativo di documentare l’elemento dinamico del moto. A questa volontà rispondono diverse ricerche. Già nel 1878 Edward Muybridge fornisce una prova visiva dei diversi movimenti all’interno del fluire di una stessa azione, descrivendo le varie forme che un corpo assume durante gli stadi differenti del movimento. Nel contempo, in Francia, Étienne-Jules Marey inventa la Cronofotografia riuscendo a fissare su un’unica lastra le varie fasi del moto che si sovrappongono. Nel 1912 Anton Giulio Bragaglia, con il Fotodinamismo Futurista, produce l’uso estetico dell’ “effetto mosso” riuscendo a registrare la traiettoria che il movimento traccia nello spazio. Negli anni Trenta con lo sviluppo dei flash stroboscopici i vari momenti del movimento si sovrappongono con maggior rapidità riuscendo a trasmettere l’energia dinamica.
Solo nel 1914 appaiono le prime immagini di danzatori in movimento sempre in interni. Anna Pavlova viene fotografata da Arnold Genthe nel suo studio. Il fluire della stoffa del costume, i muscoli tesi delle gambe evocano il movimento nel suo divenire. All’interno di uno spazio artificiale, con il supporto degli apparati d’illuminazione disponibili, i fotografi riescono a restituire alcuni elementi specifici della danza: il movimento, la dinamica, l’energia, il corpo e le forme.
Dalla fine degli anni Trenta s’inizia a fotografare dal vivo, o durante le prove o durante lo spettacolo. I primi esempi di questa nuova tendenza sono le fotografie che Merlyn Severn realizza nel 1936 per il balletto Les Sylphides di Michel Fokine al Covent Garden di Londra. La fotografa utilizza pellicole, obiettivi, apparecchi fotografici mutuati dal fotogiornalismo. È un modo di operare che richiede al fotografo capacità di osservazione, conoscenza della danza (si spera) per sviluppare un’empatia con quanto sta accadendo sul palcoscenico.
Infine, vengono realizzate fotografie che mostrano il processo che avviene dietro le quinte, il lavoro in sala prove e l’atmosfera dei camerini. Sono immagini che possiamo ricondurre ai lavori del pittore Edgar Degas alla fine dell’Ottocento. Il progetto di Silvia Lelli, Danza Dentro Danza Oltre (1996) raggruppa immagini scattate in sala prove che dimostrano la forza dinamica del danzatore in prova, spesso mostrandoci soltanto dei frammenti del suo corpo: gambe, piedi, muscoli.
In conclusione, la visione parziale che la fotografia di danza ci restituisce, sempre mediata dalla sensibilità e dall’occhio del suo autore, può raccontarci molto di un movimento effimero o di un evento fugace. Ma è possibile cogliere con maggior completezza il contenuto espressivo di un’immagine di danza, solo se si conosce il processo di produzione dell’atto fotografico generativo. Ciò vuol dire che è sempre presente un elemento di finzione costruita che però interagisce con un‘autonomia di significati. Questi due elementi, insieme, rendono l’immagine una forma di espressione complessa, ancor più oggi per le potenzialità delle tecniche digitali.