Esattamente tra un mese si inaugurerà il diciassettesimo Festival Internazionale di Danza Contemporanea diretto da Wayne McGregor (Studio Wayne McGregor), nell’ambito di Biennale Danza 2023. Dal 13 al 29 luglio, 141 artisti provenienti da tutto il mondo indagheranno sui palcoscenici di Venezia e Mestre la chimica delle emozioni. Oltre agli spettacoli, il pubblico avrà modo di apprezzare la mostra dedicata al Leone d’Oro alla carriera, Simone Forti che su proposta del direttore del settore Danza della Biennale di Venezia e con l’approvazione del Consiglio di Amministrazione, riceverà il prestigioso riconoscimento.
Un’occasione per accostarci alla poetica di un’artista forse un po’ sfuggente ma che è stata tra le pioniere della postmodern dance americana.
Simone Forti, poco più che ventenne, a San Francisco, insieme al marito Robert Morris, si dedicano all’action painting, ovvero dipingono muovendosi su grandi tele disposte a terra. Fin da subito inizia a frequentare corsi di modern dance nella scuola di Anna Halprin e Welland Lathrop. Non è soddisfatta. La Forti è interessata maggiormente alle lezioni di A.A Leath perché le sembrano stimolare le diverse e innumerevoli possibilità della dinamica motoria ma soprattutto le permettono di ritrovare “qualcosa di quell’energia selvaggia”.
Un istinto primitivo, naturale dal quale, per la Forti, può scaturire l’immediatezza espressiva del movimento che si libera attraverso un’elaborazione personale svincolata da una tecnica già precostituita. Motivo per cui si è sempre definita genericamente artista o movement artist. La Forti ritiene necessario seguire le leggi universali che coordinano la macchina anatomica per sviluppare una consapevolezza e un controllo del movimento e nel contempo stabilire un’empatia con lo spazio circostante.
Attraverso il coinvolgimento nel lavoro Airport Hangar di Anna Halprin del 1957, la Forti assiste e partecipa alla rottura di certi codici e all’instaurazione di altri nuovi che si riverberano nella performance improvvisata con la coesistenza di artisti di ambiti diversi.
Critica su alcune modalità di operare della Halprin perché subordinate troppo o soltanto a una necessità estetica, la Forti si avvicina a Cunningham e inizia a frequentare i suoi corsi di improvvisazione, basati anche sul metodo di estrazione di Cage, che comunque sono più rigidi e meno flessibili. Formatasi in queste esperienze, a partire dagli anni Settanta, l’artista italo-americana inizia a delineare una sua poetica personale: l’esperienza del mondo fisico è motivo scatenante di qualsiasi gesto, anche il più semplice, che viene ricercato prima in natura, affinché risponda alle leggi naturali, e poi applicato su di sé interpretandolo in modo personale, esprimendo sempre ciò che si sente in quel momento.
Spesso è un sentire affine a un piacere intenso che la Forti avverte e vive soprattutto durante il suo soggiorno prolungato presso una comunità hippy dove l’uso diffuso di droghe altera la nostra percezione, il nostro equilibrio e il modo in cui ci mostriamo agli altri perché ci si guarda tutti “come sul punto di innamorarsi”.
L’artista riesce ad appropriarsi volontariamente di questi stati alterati per una danza che non mira alla rappresentazione di messaggi narrativi ma poggia interamente sul movimento.
A partire dal 1968, la Forti inizia a frequentare il Giardino Zoologico di Roma dove comincia ad osservare il movimento degli animali. Questi incontri, noti come gli Zoo Mantras, rappresentano una parte essenziale della sua ricerca. L’artista non è motivata da un intento imitativo bensì dall’individuazione di elementi nel movimento animale che possono essere riproposti dal corpo dell’uomo in virtù di un’affinità tra l’atteggiamento umano e quello animale: ovvero, la capacità di operare variazioni di movimento per sopperire a un disagio interiore.
“Ogni volta che andavo allo zoo, scorgevo un animale che stava danzando. Non era la bellezza del movimento a farmi dire che stavo guardando una danza, ma l’atteggiamento interiore dell’animale. L’atteggiamento interiore proviene dalla relazione del movimento con tutti gli altri aspetti della vita dell’individuo.”
Simone Forti con questi dialoghi interspecie allarga la sua visione nella convinzione che tutte le specie condividano gli elementi primari della danza intesa come possibilità di rimanere connessi alla nostra natura più intima e profonda anche in un contesto di mutazioni e avversioni.
L’improvvisazione come risposta all’esigenza di sperimentazione, un’osservazione dell’ambiente circostante mai neutrale bensì funzionale a stabilire un’empatia con quanto osservato, l’ampiezza e l’impronta transdisciplinare della sua visione mai finalizzata a esiti solamente e puramente estetici, rendono Simone Forti un’artista di prim’ordine.
Come si legge nelle motivazioni del premio, un’artista che “ha sostenuto la superiorità del corpo, o piuttosto il ‘pensare con il corpo’ come forza di sperimentazione, azione e (re)invenzione.”