La serata inaugurale del diciassettesimo Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale Danza

Significativa la scelta del Direttore Wayne McGregor di affidare la serata di apertura del festival a due giovanissime coreografe: una colombiana l’altra irlandese

di Elio Zingarelli
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Andrea Peña presenta BOGOTÁ, una prima assoluta.

Il titolo suggerisce la peculiarità della cultura latino-americana di assimilare il mondo dei vivi e quello dei morti. Due dimensioni dominanti o, forse, una sola che si esprime in due modi: ovvero, attraverso il piano orizzontale della socialità e quello verticale che unisce terra e cielo. Danzatori che strisciano e si trascinano sul pavimento mentre altri si elevano spingendo sulle spalle. Due assi d’azione resi scenicamente da un’impalcatura che incombe in altezza e da un suo elemento movibile che insieme a grandi sacchi bianchi vengono trainati su tutta l’area d’azione.

Linee orizzontali e verticali offuscate dalla diagonale di luce tremula che allerta e rassicura per tutta la prima parte del lavoro. Passando per altre diagonali meno lampanti, l’intersezione di questi assi suggerisce gli unici due movimenti riconosciuti o tollerati: dall’asse verticale possiamo tendere verso quello orizzontale attraverso un movimento di caduta che evoca la morte, o viceversa una tensione in direzione opposta che suggerisce un volo, qui solo timidamente annunciato dall’immagine corporale che si staglia come una Nike sulle casse mentre effondono l’ibridazione musicale curata da Debbie Doe.

Nessun impeto di volo abita la nostra Dea alata, alcun arto si protende in avanti, quindi nessuna resurrezione; solo un tremolio che investe il suo corpo nudo, privo anche di un leggero chitone, e che aderisce alle sue membra così da valorizzare un’intenzione di salvezza ostacolata. Una possibilità osteggiata dai residui della colonizzazione, dalla semplificazione, dalla normalizzazione. Atti etero-dettati che il lavoro della coreografa mira a invalidare mediante l’azione, a tratti ridondante, di corpi queer, non addomesticati, o semplicemente più completi, che non suggeriscono uno stato alternativo o alterato, piuttosto esortano e stimolano ciò che è stato obliterato perché delegato a un ruolo che lo identifica unicamente e rigidamente.

Pertanto, è la resilienza a contraddistinguere questi corpi umani che sopportano quanto di doloroso accade perché necessario o provvidenziale. “Àbstine e sùbstine”, ossia “astieni e sopporta”, questo è il motto del filoso greco Epittèto, che esorta gli uomini a una resistenza persistente. La sollecitazione dinamica della Nike, che mobilita anche gli altri danzatori, è propedeutica a un atteggiamento di apertura e di ascolto atto a riconoscere tutti i movimenti possibili, coglierne la complessità visibile nella contemporaneità ma invisibile per la miopia satura dei contemporanei.

La coreografa Oona Doherty, già Leone d’Argento della Biennale Danza 2021, presenta Navy Blue, una prima italiana. Lo spettacolo palesa sul palcoscenico ondate di parole e di gesti. Un testo sul conflitto, la resistenza, la denuncia delle contraddizioni della realtà materiale in cui sopravviviamo e forse, oggi, per la quale soltanto viviamo, scritto a quattro mani dalla stessa Doherty con l’autore, attore e regista Bush Moukarzel, ispirandosi al Pale Blue Dot dell’astronomo Carl Sagan.

Fa da contraltare il Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra di Rachmaninov sulle cui primissime note i dodici danzatori uniformi disposti in fila agitano le loro teste. Sempre uno affianco all’altro pronunciano parti del testo suggerendo un’affascinante connessione linguaggio – corpo, come la lingua influenza la danza.

È possibile che il testo cambi a seconda di come lo incarnano gli interpreti?

Il modo in cui un corpo enuncia un testo configura anche il modo in cui il pubblico lo sente e lo comprende. Emergono nuovi percorsi, nuovi stati fisici. Quando invece la voce dell’attrice convive con il movimento dei ballerini si configura una forma di conflitto che è all’interno di una stessa persona (conflitto mentale); tra due persone (conflitto emozionale o fisico); tra due gruppi (conflitto sociale o di resistenza politica). Ecco il tema dell’individuazione e della conflittualità, dell’unisono e dell’autonomia che la coreografa esplora con i suoi danzatori, muovendosi da un piano micro a uno macro e viceversa. La linea iniziale che sulla musica di Rachmaninov diventa presto un’onda sembrerebbe alludere alle turbolenze di massa del nostro tempo e alla solitudine dei singoli, violati o dimenticati.

La coreografa irlandese mette in scena gli impulsi contrari che sfidano l’unità della società: come si relaziona l’individuo al gruppo, qual è il posto del singolo al suo interno. Ma soprattutto qual è la posizione dell’individuo sulla terra e nell’universo. Sempre in fila i danzatori alzano il braccio come per indicare qualcosa, le stelle in cielo, o chiedere di prendere parola. Una richiesta velata e subito vanificata dallo stesso dito indice che ritorna e poggia sul loro petto, questa volta indicando loro stessi. Un riconoscimento in qualcosa o un’accusa per qualcosa? La seguente scena di lutto farebbe tendere per la seconda ipotesi. La medesima caduta viene ripetuta dodici volte: è la stessa sempre per la stessa ragione. Una reiterazione che evidenzia non solo una forma ma una tematica cruciale: la ripetizione. Uno strumento già ampiamente utilizzato nella tradizione ballettistica e nella danza contemporanea con intenzioni differenti: come ipnosi, come atto rivelatore delle condizioni reali dell’uomo.

In Navy Blue il concetto di ripetitività non ricopre un ruolo tanto costitutivo per la resa della proposta artistica bensì stabilendo uno scarto con l’espressività forzata dei volti, più che dei corpi dei danzatori, denuncia possibilità del comportamento sociale annullate da dinamiche sempre uguali, anche queste ripetute. Tuttavia, attraverso una modalità performativa la coreografa suggerisce con i danzatori e inserisce noi spettatori in possibili modi di vita e in possibili modalità di vivere all’interno di una narrazione più ampia guidata dalla voce dell’attrice. All’inizio le persone e i conflitti che descrive non l’appartengono; anzi, a tratti sembra controllare gli interpreti come fossero marionette. Poi viene incarnata da più danzatori ma è decentralizzata perché alcuni tra questi diventano protagonisti.

Nel corso dello spettacolo la voce è abitata da tutti gli interpreti, diventando la voce dell’insieme e nello stesso tempo di un solo essere collettivo sofferente. Alla fine, una danza tessuta tra la voce e i corpi colma la distanza iniziale che diviene sincronia ed empatia verso un solo essere individuale che con il seno visibile, emblema della vittima immolata, si agita, si contorce in una danza d’angoscia personale e collettiva, alla ricerca di un possibile aiuto. Un abbraccio non salvifico ma consolatorio. La coreografa ci invita a intraprendere questa sfida. Un’auspicio alla solidarietà come antidoto e consolazione.

Crediti fotografici: Sinje Hasheimer

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