Non è casuale la scelta del direttore generale e artistico, Fabrizio Grifasi, di inaugurare la trentottesima edizione del Romaeuropa Festival con lo spettacolo Ukiyo–e di Sidi Larbi Cherkaoui e Ballet du Grand Théâtre de Genève, il 6 e il 7 settembre nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”.
Lo spettacolo, una prima nazionale realizzata con il sostegno della Repubblica e del Cantone di Ginevra, della Città di Ginevra e dell’Istituto Svizzero, aiuta a orientarci nella vasta, articolata ed eterogenea programmazione del REF2023, dal titolo Le geografie del nostro tempo. Geografie fluttuanti, che impongono l’uso plurale del sostantivo, come la danza dei 18 interpreti in scena, ispirata in particolare all’“Ukiyo-e” (letteralmente: immagini del mondo fluttuante) stile artistico sviluppatosi durante la così detta era Edo (1603-1868), che dà vita ad un’ondata di movimenti con la complicità dei costumi disegnati da Yuima Nakazato e delle scale realizzate dallo scenografo newyorkese Alexander Dodge.
“Thus waves come in pairs” (le onde vengono a due a due) dice il verso di una poesia di Eten Adnan, che ci ricorda che bisogna pensare e ripensare in modi plurali e praticare forme di condivisione. La gestazione stessa dell’opera nasce da un intento condiviso da autorialità creatrici: una modalità realizzativa cara a Sidi Larbi Cherkaoui che considera la coreografia sempre in connessione con altre forme d’arte e altri artisti. Ma anche un procedimento creativo che rievoca quello russo ostentato dai Ballets Russes agli inizi del secolo scorso con artisti provenienti da esperienze e mondi diversi, con differenti punti di vista.
Dal canto suo, la musica dello spettacolo sfoga una complessità simile a quella di certe pagine musicali che Stravinskij scrive per alcuni dei capolavori coreutici della prima metà del Novecento. La partitura complessa di questa opera di danza è firmata a due mani da Szymon Brzòska che scrive sonorità più classiche affidate al pianoforte e al violino, e Alexandre Dai Castaing con le sue inclinazioni futuristiche miste alla musica tradizionale giapponese e agli elementi naturali come il vento e il mare. Il risultato realizzato dai musicisti che interagiscono con i danzatori, è un oceano di suoni le cui onde portano con se un movimento che infrange e rimescola le fissità di confini circostanti.
La danza fluttuante rende fluida e dinamica la percezione del circostante e afferma un nuovo bisogno di connessione dello spazio urbano e naturale con il movimento (o viceversa) perché la danza opera sempre nel contesto dell’architettura: la sfida è mettere al centro il corpo che va immaginato in tutte le sue possibili estensioni e in relazione a tutti gli altri elementi circostanti.
Sidi Larbi Cherkaoui pone i danzatori e le danzatrici in un rapporto dialettico con le monumentali scale che vengono spinte, allontanate e avvicinate, assumendo prima le sembianze di una barca, poi di un’unica grande nave che attracca al porto, e infine di un tempio che si dissolve nel vuoto. Quasi un’autonoma coreografia ambientale tridimensionale però compromessa con quella umana funzionale alla riappropriazione di un legame con la geografia del nostro pianeta, non solo quella del Giappone, che è necessario attraversare: il transito, allora, diventa la condizione tipica dell’uomo contemporaneo ma lo è anche della danza come arte del movimento. In alcune scene i danzatori si incastrano come i denti di una cerniera, si aprono e si chiudono perché attratti da alcuni e respinti da altri; gli interpreti sono individualità scomode e non allineate che cercano di rimanere fedeli a sé stessi (un tentativo marcato anche dalla poesia di Kae Tempest inserita nello spettacolo), non sono assimilabili alla routine esistente alla quale si oppongono con la propria nudità, una volta liberatisi di quei kimoni privi di cerniere, perché paladini di un corpo liberato anche dalla riforma dell’abbigliamento.
Le loro braccia si incrociano tracciando geometrie che disegnano i confini di uno spazio identificato con il palcoscenico nella sua interezza. Qui gli assoli e i passi a due assumono lo stesso valore degli assiemi più coinvolgenti e delle cadute nel vuoto più solitarie perché accomunati dallo stessa qualità disorientante determinata da una ridondanza di energia contrastanti e di strade percorribili. Se è vero che una geografia può stabilire un’appartenenza geografica, che è anche un’appartenenza politica, non è vero che la geografia alla quale apparteniamo ci determina perché non siamo solo circondati ma anche attraversati da confini. Quelli che restano dopo aver abbattuto i muri del tempio perché confine etimologicamente non vuol dire muro ma il posto dove andiamo a finire assieme, un luogo di appuntamento, di scambio in cui le due identità non sono perfettamente leggibili perchè il confine è di entrambi. Quest’opera di danza sembra piuttosto esibire cautamente una geografia sentimentale che riduce il concetto di geografia al mondo interiore e i luoghi alle relazioni tra persone di nazionalità differenti sulla base di una corrispondenza simbolica biunivoca tra persone e luoghi. In ogni caso, la geografia ha a che fare con la potenzialità umana più bella che è il fluire dell’esperienza del mondo e di sè, e noi uomini abbiamo soltanto un modo per farla: attraverso il movimento dei nostri corpi vivi, cui si può partecipare senza essere dei professionisti e per scopi diversi da quelli della prestazione estetica. Ukiyo–e si configura come una “ridon-danza” cerimoniale accessibile e disponibile alla collettività che viene predisposta – dice il coreografo – “in una posizione di contemplazione e di ascolto, come davanti al mare”, le cui onde – ci dice anche la fisica contemporanea – come noi, sono il risultato di interazioni reciproche.
FOTO: Sidi Larbi Cherkaoui_Gregory Batardon