Un trittico di danza accoglie di nuovo il pubblico al Teatro Costanzi dopo gli spettacoli estivi alle Terme di Caracalla nell’ambito del Caracalla Festival 2023.
Serata Coreografi Contemporanei, ideata da Eleonora Abbagnato, Direttrice del Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma, è costituita da tre lavori molto diversi tra loro che per la prima volta entrano nel repertorio del Teatro: Within the Golden Hour di Christopher Wheeldon, Chacona di Goyo Montero, Bolero di Krzysztof Pastor.
Per orientarci nell’universo poetico di tre autori della danza di oggi possiamo individuare almeno tre fils rouges che attraversano tutte e tre le opere di danza: la musica, ovvero lavori coreografici costruiti su grandissime musiche, la stessa inclinazione per la tecnica forte e l’attenzione per le relazioni tra persone.
La serata si apre con Within the Golden Hour creato da Wheeldon nel 2008 per San Francisco Ballet’s New Works Festival: un lavoro per quattordici danzatori sulla partitura originale per archi di Ezio Bosso, a cui si aggiunge il movimento Andante del Concerto per violino in si bemolle maggiore, RV 583 di Antonio Vivaldi (le musiche su base registrata sono eseguite dall’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma). In questo nuovo allestimento del Teatro Costanzi, i costumi di Anna Biagiotti e le luci di Peter Mumford concorrono a rendere scenicamente i toni profondi, e a tratti frivoli, di una musica “importante” che è stata la prima fonte di ispirazioni per il coreografo brittanico, insieme alle diverse gradazioni di oro che connotano la pittura di Gustav Klimt, la cui brillantezza è qui evocata dai dettagli “solari” dei costumi.
È difficile immaginarsi questa danza senza la musica perché, come si legge nelle note di regia a cura di Cheryl A. Ossola, ciò che questo lavoro mostra chiaramente è il modo in cui Wheeldon risponde alle diverse sequenze musicali: “la danza – sostiene il coreografo – raggiunge il massimo quando riesce a ricreare visualmente la musica.” Un’affermazione che rievoca processi creativi coreici che soprattutto nel Novecento hanno condotto a risultati di indiscusso valore a cui possiamo affiancare quest’opera di altrettanto evidente qualità che si succede per quadri focalizzati attorno a sette coppie. Non c’è una storia, non ci sono personaggi ma solo mutevoli silhouettes su uno sfondo cangiante forgiate mediante la tecnica del balletto classico contaminata da una nuova creatività per esprimere cambiamenti di umore, la giocosità del corteggiamento, la profondità del romanticismo, il coinvolgimento dell’innamoramento.
In particolare, i tre pas de deux centrali interpretati dalle étoiles Alessandra Amato, Rebecca Bianchi e Alessio Rezza, i primi ballerini Claudio Cocino e Michele Satriano e la solista Federica Maine palesano partnerships differenti, relazioni possibili tra uomini e donne. Wheeldon presenta un’astratta, ma nel contempo profonda, combinazione tra musica, coreografia e interpretazione perchè consente a noi spettatori di conneterci in profondità con quegli attimi fuggenti che la luce fievole del sole nascente e morente riesce a lumeggiare ma che noi, nel quotidiano, non riusciamo a cogliere perchè accecati dal bagliore frenetico delle ore centrali.
Segue Chacona creato da Goyo Montero che firma anche le scene e i costumi, con Verena Hemmerlein, oltre che le luci di Nicolás Fischtel. Il coreografo spagnolo sceglie una composizione di J. S. Bach (le partiture del compositore tedesco che non ha mai scritto musica per danza continuano ancora a stimolare la creatività di coreografi e danzatori): viene utilizzata la Chaconne dalla Partita n. 2 in re minore per violino solo, BWV 1004, eseguita nella forma originale per violino (Vincenzo Bolognese) ma anche per chitarra (Sergio Segato) e piano (Enrica Ruggiero). Quattro file di danzatori tutti in nero si compongono e si scompongono in sintonia con l’elemento di variazione che caratterizza la ciaccona e che a sua volta è un’allegoria dei cambiamenti della vita. Gli interpreti giungono a formare un’unica colonna dalla quale si separa una coppia che verrà replicata dagli altri mentre accennano prese. Strutture umane che si alternano e si alterano interagendo con le ombre e penombre geometriche che illuminano il palcoscenico chiaroscurale. Tutti i danzatori sono coinvolti in una danza contemporanea e contemporaneamente estenuante e stimolante che gli obbliga a un’interazione sempre più intensa mentre si dipanano amori, odi e rivalità. Competizione e complicità contrassegnano i corpi singoli che alla fine sembrano costituirne uno unico per complicità e sincronia.
Conclude la serata il Bolero di Krzysztof Pastor creato nel 2012 durante la residenza all’Het National Ballet, e già presentato dalla compagnia capitolina sul palcoscenico estivo del Caracalla Festival per il Gran Gala di Danza dello scorso luglio. Il titolo del lavoro si riferisce al capolavoro di M. Ravel (su base registrata eseguito dall’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma diretta da Kevin Rhodes) con il quale molti coreografi si sono confrontati, ma il riferimento per tutti rimane la versione di Maurice Béjart del 1961.
Di chiara ascendenza béjartiana è anche questa versione che dispiega in apertura di sipario file verticali parallele di danzatori e danzatrici che sfoggiano una solida tecnica accademica ibridata con tecniche di danza contemporanea. Ma se il Bolero rievoca immediatamente la figura del cerchio (il rosso tavolo rotondo o gli interpreti disposti in cerchio) e la figura di un solista, in questa versione le scene di Tatyana Van Walsum e le luci di Bert Dalhuysen definiscono uno spazio rettangolare giallo nel quale si dispiega il crescendo dei danzatori e di una coppia, Claudio Cocino e Rebecca Bianchi, avvolti da aderenti tutine rosse disegnate dalla scenografa. La coppia principale ricorda anche la versione di Roland Petit di cui in rete c’è un filmato del 1997 intepretato da Lucia Lacarra e Massimo Murru: due lottatori che sul proprio ring si sfidano in un calibratissimo duello di seduzione. Ma nel lavoro del coreografo polacco le diagonali di uomini e donne che attraversano il palcoscenico saltando e la posa finale dei due interpeti principali mentre si inarcano in dietro accostando i corrispettivi bacini rievoca un altro capolavoro del coreografo marsigliese: ovvero, Le Sacre du Printemps. L’opera del 1959 rappresenta un inno alla vita attraverso l’unione fra la donna e l’uomo proprio come questa versione del Bolero si focalizza sul rapporto tra uomini e donne. Pastor ci presenta un lavoro ricco di reminiscenze la cui unica trama sembra essere l’aderenza alla struttura interna della composizione musicale e all’impersonalità dei suoi temi.
Il pubblico ha assistito a uno spettacolo variegato per intensità e stile ma omogeneo per la grande energia di una danza, un movimento di piacere e di bellezza.
ph. Teatro dell’Opera di Roma