Com’è stato essere un bambino che amava la danza nella Sicilia di 30 anni fa? Oggi frequentare una scuola di ballo è quasi scontato, che si tratti di maschio o femmina tutti studiano senza creare “scalpore”. Allora era certamente diverso. Ci racconti i tuoi anni da allievo e di ragazzino innamorato del ballo?
Non è stato affatto semplice. Avevo 15 anni e fingevo di andare in palestra mentre nella borsa avevo la calzamaglia e il sospensorio. I miei genitori non avevano idea che le mie frequenti uscite fossero destinate allo studio della danza e non all’accrescere i muscoli. Ma ero determinato e tutto ciò che facevo mi ha fortificato rendendomi sempre più certo dei miei obiettivi. Non c’erano soldi però e se volevo studiare dovevo trovare il modo per farlo. Furono anni difficili ma oggi, col senno di poi, li reputo bellissimi e formativi.
Che cos’è accaduto poi? Che cosa ha fatto sì che passassi dall’essere un ragazzino che studiava danza di nascosto all’essere un ragazzo che va dai genitori e gli dice di voler fare il ballerino nella propria vita?
Avevo 17 anni e mi trasferii a Milano cominciando a studiare e lavorare nel contempo per mantenermi. Intanto i miei genitori mi credevano nella vicina Ragusa dove pensavano lavorassi e da dove, per mille bugie che inventavo, non riuscivo mai a tornare. Mi mantenevo con mille lavori diversi: volantinaggio, bar, distribuivo i cataloghi Ikea allora cartacei, insomma mi barcamenavo in una vita che era decisamente più grande di me. Poi, un giorno, aprii Seconda Mano e trovai un annuncio in cui cercavano coreografi in Messico. Andai a fare il colloquio e mi presero. Ma avevo bisogno del passaporto e tornai in Sicilia. Col passaporto in mano mi son guardato allo specchio e mi son detto che andare in Messico era pura follia. Iniziai quindi a studiare ancora più seriamente e durante una vacanza in Puglia conobbi una ragazza che studiava danza a Roma a livello professionale. Fu lei a spingermi a trasferirmi nella capitale.
Poi cos’è successo?
Iniziai un percorso professionale e intanto condividevo casa con altre 10 persone. Contavo ogni singolo centesimo e praticamente andavo avanti coi pacchi che mi inviavano i miei genitori. A fine anno, dopo gli esami andai dal mio insegnante per ringraziarlo e lui mi disse, senza mezzi termini, che il lavoro fatto con me non sarebbe servito, che non avrei mai fatto nulla nella mia vita. Quelle parole ebbero lo stesso effetto di una pugnalata. Ma capii che non ero sbagliato io ma il percorso scelto e mi trasferii a Reggio Emilia e iniziai il corso di perfezionamento all’Aterballetto. C’era ancora Mauro Bigonzetti. Ma ero irrequieto, avevo bisogno di continue conferme e facevo di tutto per farmi notare. Dopo uno scontro con la mia insegnante di allora ebbi un colloquio con Monica Casadei. Le sue parole mi cambiarono la vita e il modo di vivere la danza. Le conferme dovevo cercarle dentro me stesso.
Qual è stata la tua prima esperienza di lavoro?
Fu proprio con Artemis Danza della Casadei. Rimasi con lei circa due anni. Poi tornai a Roma.
E invece la scintilla per la coreografia quando e come è nata?
Ero reduce da un infortunio che mi ero procurato a Singapore durante il tour di “Notre Dame De Paris” di Cocciante. Tornato in Italia, dopo essere stato fermo il tempo necessario, avevo bisogno di riprendere il lavoro e di rimettermi in forma. Andai da Michele Merola, mio amatissimo Maestro. Fu lui a invitarmi a dare lezione ai suoi ragazzi. Con loro creai la mia performance “Terra Ferma”.
Ci racconti la tua audizione per “Notre Dame De Paris”?
Non volevo neppure farla. Eravamo 1500 persone e cercavano solo due uomini e due donne. Mi sembrava impossibile, e invece…
Feci tutto il tour italiano e poi quello in Asia. Restammo tre mesi a Pechino. Ogni giorno il teatro pienissimo. Fu un’esperienza incredibile. Faticosissima, provante, ma davvero bella e formativa.
C’è un’esperienza, fra quelle vissute, che rifaresti subito?
Sinceramente no. Ogni cosa fatta appartiene a quel determinato periodo della mia vita. E in quel momento aveva il suo senso. Voglio fare cose nuove, traendo dal mio vissuto artistico tutti gli insegnamenti necessari per fare bene e meglio. Forse della mia vita da danzatore mi manca la libertà, quel costante viaggiare che mi consentiva di vedere e conoscere posti nuovi. Oggi, pur viaggiando tanto, sono molto più vincolato.
C’è qualcosa in particolare che identifica il tuo stile coreografico? Una cifra che rende riconoscibile una coreografia di Francesco Gammino?
Non parto mai da un lavoro di tipo estetico ma dal movimento del corpo che in maniera naturale ti può portare a raccontare una storia. Anche il gesto quotidiano è già movimento, è danza, Non mi piace considerare i danzatori come macchine ma entrare con loro in simbiosi e raccontarli secondo l’idea che ho in testa in quel preciso momento. Scompongo il movimento per ricomporlo sulla base di una dinamica che, credo, identifichi fortemente il mio lavoro. Qualcuno poi ha intravisto nei miei lavori un velo di malinconia. E forse è vero. In ogni passo, in ogni storia porto in scena, c’è un pezzetto di me.
C’è qualche storia in particolare che ti piacerebbe raccontare?
Vorrei raccontare il rapporto con mio padre, un rapporto non semplicissimo ma che poi, nel tempo, è diventato meraviglioso. Un rapporto che non aveva bisogno di spiegarsi, che andava al di là delle parole. Era un papà padrone che mi terrorizzava. Crescendo ci siamo allontanati per lunghissimo tempo fino a che ha capito che aveva bisogno di me, come io di lui. Purtroppo è mancato di recente.
Oltre a Monica Casadei, di cui abbiamo già parlato, esistono figure professionali che in qualche modo hanno influenzato il tuo essere danzatore prima e coreografo poi?
Sicuramente Mauro Astolfi, con cui ho lavorato circa 4 anni, Elisa Monte, di New York, lo stesso Michele Merola, già nominato: ognuno di loro mi ha lasciato delle cose che oggi ritrovo nel mio approccio al lavoro.
Se ripensi a quel bambino che in Sicilia letteralmente lottava per realizzare il proprio sogno e poi pensi ai ragazzi di oggi che, rispetto a te, han tutto facile, cosa diresti loro?
Che sono fortunati, perché hanno nella maggior parte dei casi una famiglia che li appoggia, che hanno per lo più grande talento, e che oggi, rispetto ai nostri tempi, tutto è più alla portata di mano. Ma anche di ricordarsi sempre il motivo per cui hanno scelto di intraprendere questo percorso: la passione, l’amore per la danza. Se ogni giorno ci si ripete questo semplice assioma conservi quella motivazione che ti spinge a fare di più, a crederci e ad avere entusiasmo. L’obiettivo è ogni giorno, e non bisogna perderlo di vista. Bisogna ritrovare sempre in sé stessi la forza, la motivazione e l’amore per ciò che si fa.
Sei una persona ambiziosa?
L’ambizione mi spaventa. Dietro c’è ansia, c’è aspettativa, c’è scadenza, c’è il dover dimostrare sempre qualcosa. Non mi piace vivere questo lavoro come una sorta di macchina: non si può schiacciare un bottone e subito produrre un qualcosa.
Ti piacerebbe avere una tua compagnia?
Ad oggi non ambisco a tanto. Preferirei lavorare come coreografo freelance per compagnie già esistenti.
Se pensi a te tra vent’anni, dove ti vedi e a fare cosa?
Spero di essere una persona felice, spero di aver fatto delle cose che nel frattempo mi hanno reso orgoglioso di me. Ma non amo pianificare e non so che cosa accadrà domani, vivo alla giornata e mi concentro sull’oggi. Il futuro, magari, mi sorprenderà.
Foto: Bianca Serena Truzzi