In questi giorni diverse persone mi hanno scritto per mettermi al corrente della partecipazione di una coppia di primi ballerini italiani ad un programma televisivo, chiedendomi un parere a riguardo.
Devo essere sincera, non guardo la televisione da secoli, o meglio, utilizzo l’elettrodomestico televisivo per guardare film e anime ma non conosco i contenuti dei palinsesti. Non nutro giudizio verso i programmi televisivi, semplicemente non ho alcun interesse verso questo genere di intrattenimento, precisazione doverosa per evidenziare il fatto che forse non sono la persona giusta per questa argomentazione. Tuttavia, per correttezza, prima di scrivere sono andata a documentarmi su che tipo di prodotto si tratti, scoprendo che esiste una pagina wikipedia incredibilmente dettagliata.
Non ho critiche da muovere verso questi due giovani e talentosi ballerini, ognuno fa della propria vita e della propria carriera ciò che vuole, è una scelta che riguarda esclusivamente loro e il Teatro con cui hanno stipulato un contratto: se gli è stato dato il permesso di partecipare allora ogni discussione rischia di diventare solo pettegolezzo.
Tuttavia questo evento crea il pretesto perfetto per parlare di un argomento che avevo in serbo da tempo, tenuto a maturare nella mente in attesa del momento giusto per metterlo sul piatto, mi scuserete se potrò risultare radicale o troppo all’antica, ma la mia età mi consente di avere un’opinione su questo mondo che cambia velocemente e non sempre in una direzione in cui mi riconosco.
Da diverso tempo le prime ballerine, ballerini ed étoile internazionali si spendono molto come testimonial per le case di moda. Questo non mi sorprende, sono tutti bellissimi ed eleganti, con corpi meravigliosamente disegnati dalla danza e carisma, per la gioia degli stilisti che adorano vedere le proprie creazioni su questi modelli d’eccezione. Da sempre moda e danza vivono la loro storia d’amore, sono innumerevoli gli scatti di Madame Margot Fonteyn sempre elegantissima nelle occasioni mondane, un’icona di stile che sono certa abbia ispirato molte donne in quegli anni.
Oggi Marianela Nunez, ha scelto di firmare una linea di abbigliamento tecnico, Tiler Peck appare sui social come entusiasta testimonial di un’azienda che produce abiti per danza, del resto chi più di una ballerina ha competenze per disegnare un capo piacevole e comodo per chi danza?
Li vediamo presenziare alle sfilate della settimana della moda, eventi culturali, mondani, televisivi, ufficiali. A questo si aggiunge la recente tendenza dei programmatori di produrre molti spettacoli in forma di Gala, così le stelle della danza compiono tanti viaggi, anche intercontinentali, per raggiungere i teatri in cui dovranno esibirsi.
Chiaramente sono contenta della visibilità di cui oggi la danza gode, rispetto a qualche decennio fa. Grazie al digitale e ai media, intere schiere di giovani studenti di danza possono seguire i propri ballerini preferiti nelle loro giornate, sbirciare nelle loro vite, almeno fin dove ognuno di loro decide di far vedere, permettendo agli artisti di raggiungere il proprio pubblico anche fuori dai teatri, a cui possono accedere in pochi.
Questa enorme visibilità, però, comporta anche dei rischi. Una volta i ballerini erano quasi come delle entità, nulla si sapeva della loro vita privata, mancava l’occhio indiscreto della tecnologia digitale a immortalarli in ogni momento, si andava a vederli a teatro e al massimo potevi aspettare fuori dall’entrata degli artisti per rubare un autografo o una foto assieme, sempre che la persona in questione fosse ben predisposta ad intrattenersi con gli ammiratori.
Questo alone di mistero in cui erano ammantati ne potenziava il carisma, quello che ci si aspettava da loro era una performance meravigliosa, emozionante, abbacinante, che poi permaneva nel cuore e negli occhi per giorni. Erano creature in grado di far sognare, di attizzare il desiderio verso di loro da parte del pubblico, che però era tacito rimanesse in qualche modo relegato alla scena: l’amplesso con l’artista era solo quello, non era contemplato altro, il resto era parte di quella sfera privata che nessuno aveva interesse a violare. Forse anche per timore di rimanere delusi, di aver nutrito aspettative altissime verso l’essere umano dietro l’artista per poi scoprire che invece si tratta di una persona come tante, con tutte le paure, insicurezze, imperfezioni e bruttezze che fanno parte dell’esperienza umana.
Non sto dicendo che prima le stelle della danza non si facessero vedere agli aventi mondani, ma era qualcosa di eccezionale, mentre la norma, per queste creature della notte, mai perfettamente svelate, prevedeva che durante il giorno sparissero nel ventre dei teatri, a cercare quella tanto anelata perfezione che non arriva mai davvero, provare e riprovare fino a che quel movimento o quella espressione non hanno la giusta tensione drammaturgica, fino a che l’emozione non riempie la sala prove, per poi poterla restituire ad un pubblico che reclama a gran voce quel nettare, concedendosi il piacere di credere alla finzione teatrale.
La sovraesposizione di oggi, a mio parere, intacca quell’aura.
Se solo almeno la propria immagine venisse usata per sensibilizzare verso tematiche sociali e ambientali, per esempio, come la divina Sylvie Guillem, allora sarebbe diverso. Se si sfruttasse la propria notorietà per impegnarsi a sostenere l’intera categoria e la situazione in cui la danza versa nel nostro paese, questo darebbe loro un’autorevolezza speciale, ma chi ha voglia di esporsi, magari inimicandosi qualcuno?
Oppure, forse, questa urgenza non si presenta neanche.
I ballerini della mia generazione hanno sempre visto la televisione con occhi critici, non c’erano molte persone di teatro che desideravano comparirvi, erano come due mondi contrapposti, ci eravamo lasciati alle spalle la bella televisione degli anni ’60 con i suoi programmi culturali e ospiti illustri come Carmelo Bene o Pier Paolo Pasolini, nutrivamo un profondo sentimento identitario nell’essere parte della macchina teatrale, come fossimo custodi di un sapere antico, scritto nelle cellule stesse della storia dell’umanità. La televisione, ultima arrivata, non aveva su di noi molto appeal: se c’era da dire qualcosa lo si faceva dalle assi del palcoscenico.
Il mondo cambia, evidentemente oggi i valori sono diversi, tuttavia la carriera di un ballerino classico non è lunga, con la nomina a prima ballerina o étoile si arriva ad un momento cruciale e rimangono pochi anni davanti, nel pieno delle energie, per esplorare tutte le corde e i colori della propria tavolozza, nella speranza di donare qualche memorabile interpretazione. Questa missione richiede focalizzazione mentale e una direzione chiara, sarebbe un vero peccato lasciare che mille distrazioni si frappongano tra sé e il compimento del proprio progetto.
Tempo fa ascoltai Aurelie Dupont dire che l’Opéra è sempre stata molto restia a dare permessi ai propri artisti per fare esperienze fuori dal teatro. Sebbene questa compagnia del tutto speciale abbia sempre avuto la fortuna di lavorare con tantissimi coreografi diversi con cui hanno compiuto una crescita artistica straordinaria, come individui e come collettività, comprendo bene il senso delle parole della Dupont: quando l’identità danzante reclama ha bisogno di sentirsi libera. Se osservo dal punto di vista del Teatro, però, capisco anche che i ballerini di una compagnia così importante rappresentano il Teatro stesso e in questo modo l’istituzione protegge sé stessa e i propri artisti, selezionando le collaborazioni esterne.
In Italia un ballerino può andare in pensione a 45 anni circa, se ha accumulato tutti i contributi. Questo vuol dire che si è abbastanza giovani da poter cominciare una nuova carriera e fare tutte le esperienze che si vuole, dopo essersi ritirati. Per rispondere a chi mi chiedeva un’opinione a riguardo io dico che l’ego di chi sta sulla scena va sempre tenuto a bada: indispensabile per dominare il palco, ma quando diventa dominante può rivelarsi una seducente trappola. Arrivare in alto, essere una stella della danza e mantenersi stabilmente radicati nel proprio centro è una condizione che richiede lavoro interiore e un’integrità tale da non perdere di vista l’obiettivo, quando se ne ha uno.