Tra il Delancey Street Theater, affacciato sulla baia di San Francisco, e il Brava Theater, nel quartiere Mission District della città, abbiamo seguito soltanto i quattro ultimi appuntamenti del San Francisco Dance Film Festival (DFSF) che dal 4 al 20 ottobre ha proposto oltre novanta opere di danza, tra lungometraggi, cortometraggi, documentari e performance dal vivo, rappresentanti più di 25 paesi. L’accoglienza e la giovialità di questo piacevole weekend di fine ottobre sembra il linea con la mission del DFSF che dal 2010 si impegna nell’ampliamento del pubblico, con discussioni post proiezione e workshop, ma soprattutto nella promozione di giovani artisti garantendo il tempo, lo spazio e il budget per collaborazioni proficue.
Il primo lavoro che abbiamo visto è stato Rone: L(oo)ping) di Louise Narboni che è un celebrazione contagiosa dell’esecuzione dell’opera di musica elettronica del francese Rone. La composizione e il suo autore rappresentano un unico fil rouge, assai sottile, discreto, che però infetta tutti i protagonisti: ovvero, un usciere, un musicista e due spettatori che a vicenda sembrano alienarsi dall’esecuzione per perdersi nella loro psiche così come nel foyer, sui tetti e nella piazza antistante la Sala Concerti di Lione.
L’edificio si impone ma non per fissazione bensì per dinamicità: dalla danza dei suoi anomali ospiti, ciascuno coreografo di se stesso, l’imponente struttura sembra continuamente interrogata sul preesistente ma attraverso la prefigurazione di ciò che può essere. Quindi, una transitorietà dell’architettura che in quest’opera interagisce intimamente con l’effimerità della danza. Ma c’è anche una grande orchestra la cui rappresentazione rimanda ad alcune delle versioni di orchestre che fra gli anni 1868 e il 1876 il pittore Edgar Degas dipinge e dove il tema della danza trova la sua prima illustrazione.
Ai neri profondi e decisi degli abiti dei maestri in primo piano, si oppone la materia cromatica iridescente e luminosa di un retropalco, come una console, ove il compositore agisce posto difronte al direttore d’orchestra. Tra i due una danza d’intesa: Rone che non legge la musica, cosi come sembra non leggere gli inconsueti ospiti-danzatori, comunica visivamente con il direttore che palesa una padronanza e consapevolezza del corpo simile a quelle di un danzatore in azione (o almeno così dovrebbe essere). Non sappiamo se Narboni si sia direttamente ispirata a Degas (e a tal proposito nulla si è detto durante il talk) ma un altro elemento avvicina i due connazionali: è l’attenzione al movimento degli animali, i cavalli per il pittore e i daini, le tartarughe per la regista. D’altronde, soprattutto oggi, avere cura del naturale significa avere l’artificiale dalla nostra parte.
Quest’apparente dicotomia in maniera ancor più approfondita permea Screencscapes: dieci opere di screen dance dove paesaggi sconfinati vengono indagati da esseri umani che si appellano anche a una forte componente immaginativa. L’inaccessibilità di uno spazio chiuso creato artificialmente e il cui suolo è interamente coperto di segatura, o di una ventosa spiaggia oceanica, così come di un luogo desertico segnato dai binari di una ferrovia, viene scardinata e alterata dai sogni e dalle storie di chi li abita. Nel complesso, il lavoro risulta molto ben curato nei numeri che si sono alternati.
Un’unica storia, invece, viene sapientemente, dettagliatamente e intelligentemente scrutata in Obsessed with light di Sabine Krayenbühl e Zeva Oelbaum. Quest’opera ci sorprende così come la sua protagonista, Loïe Fuller, stupì i suoi contemporanei: ci colpisce soprattutto l’eterogeneità dei contribuiti che hanno concorso alla delineazione di un profilo, non solamente visivo, di un personaggio completamente insolito nel paesaggio coreutico a cavallo tra Otto e Novecento. É per questo, forse, che non soltanto danzatori e coreografi ma anche August Rodin, Marie Curie, Maria Grazia Chiuri, Taylor Swift, Shakira e Alexander McQueen prendono parte, direttamente o indirettamente, a questa “meditation”, come si legge nel programma del festival, su una donna che ha rivoluzionato la cultura visiva combinando danza, tessuto e movimento (che non è sempre e comunque danza).
La quindicesima edizione del festival si è conclusa con Bay Area Shorts ove il classico e il contemporaneo si tollerano per necessità e inevitabilità in una compiuta azione collettiva. La serata è ben congeniata: una prima parte con quattro proiezioni, poi un’esibizione dal vivo dell’Embodiment Project e altre sette opere. Davvero numerosi sono i vocabolari e le tecniche di movimento, i processi compositivi, i codici estetici, i toni espressivi che definiscono un sistema danza culturalmente inquinato ma capace di riflettere autenticamente e sinceramente la complessità che ci circonda senza schermarsi dietro una presunta integrità artistico-culturale, ma anche morale, continuamente lesionata e danneggiata.
A tal proposito, la “proiezione” complessiva di queste due giornate volge l’attenzione al problema del movimento catturato, però, con continua ansia e insoddisfazione per i risultati ottenuti. Allora, seduti in queste sale, forse ancora potenziali luoghi di riti di tipo mondano, laico, emotivo, erotico e soprattutto conoscitivo, giovando anche della solidarietà e dedizione di tutti gli operatori e i volontari del Festival, possiamo cogliere e poi rendere una, o alcune, delle possibili interpretazioni di una realtà in cui non sono più le cose ma i processi, le relazioni, le contaminazioni tra di esse a contare veramente.