Lia Courrier: “Quei trucchetti che rendono la danza poco onesta”

di Lia Courrier
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Una qualità che amo vedere nei danzatori, in scena così come nello studio quotidiano, è l’onestà.

Le parole sono custodi di molteplici significati e stratificazioni di concetti, per questo vorrei argomentare meglio cosa intendo per onestà: è mia opinione considerarla una qualità che comincia innanzitutto dall’osservazione di sé, dalla scoperta di quelli che sono i propri punti di forza nel corpo fisico e nella predisposizione psichica, quindi anche delle aree più vulnerabili, che che necessitano di maggiore attenzione, allenamento, evoluzione.

Il secondo passo importante per sviluppare la qualità dell’onestà è accettare il proprio strumento esattamente così com’è, senza focalizzare lo sguardo solo su quegli aspetti che si considerano carenti ma ricordandosi sempre di quei punti di forza che possono diventare il nostro segno, la nostra cifra stilistica, ciò che si pone in primo piano nella nostra danza come un diamante brillante. Ognuno di noi ne ha: memoria, capacità di analisi, forza di volontà, prestanza muscolare, velocità, naturalezza nel saltare o nel girare, flessibilità, musicalità, fluidità, esplosività e molti altri colori variamente assortiti. La conseguenza di questo secondo passo è predisporsi ad approfondire le proprie capacità tecniche ed espressive a partire dal proprio strumento, valorizzandone le qualità senza desiderare di possederne uno diverso o forzare il proprio ad esserlo. La danza scaturisce dal proprio corpo, che non può mentire senza che il movimento risulti in qualche modo fasullo, proprio come certi visi trattati con la chirurgia estetica che, per quanto belli possano essere, trasmettono comunque una sensazione di finzione.

Ecco cosa intendo per onestà. Una danza onesta è quella in cui il corpo si mostra nella sua espressione genuina, nella sua intelligenza intrinseca. Con questo non voglio dire che non si debba lavorare per migliorare le linee, colmare le lacune, spingersi al massimo per migliorarsi sotto ogni aspetto, un processo che però dovrebbe avvenire senza mai forzare o deformare il corpo in risposta a pretese puramente estetiche o quantitative che non rispettano la fisiologia e la libera espressione di quello specifico corpo. Questo atteggiamento non ha solo a che fare con la salvaguardia della salute psicofisica, come più volte ho scritto su queste pagine, ma anche con l’efficacia del movimento, la sua bellezza, l’apertura, la sincerità con cui raggiunge il pubblico.

Esistono tanti modi in cui i ballerini mettono in atto varie tpologie di manierismo, “acconciandosi” per aderire ai modelli imposti del momento. Uno di questi, per esempio, è posizionare il piede in modo che appaia come “alato”, in inglese “winged foot”, caratteristica della mobilità della caviglia che alcune persone possiedono naturalmente, in virtù della quale quando il piede è puntato, l’alluce è allineato con il centro della caviglia, presentando una bellissima linea, specialmente in arabesque. Si tratta tuttavia di una caviglia molto fragile e vulnerabile che va tenuta sotto controllo e supportata con numerosi esercizi di rinforzo per evitare problematiche sul lungo termine.

A volte chi non possiede questa caratteristica prova a “imitare” quella linea per rispondere ad una idea puramente estetica e non funzionale, con la caviglia che rimane leggermente in flessione falsando la percezione del piede correttamente puntato, impedendo all’energia di arrivare fino alla punta delle dita.  Questa mancanza di consapevolezza e di coerenza, al servizio dell’estetica, avrà effetti non solo sull’efficacia dei movimenti ma anche sulla purezza delle linee.

D’altra parte questo non significa neanche assecondare la fisiologia del piede nel caso di un piede “a falce”, in inglese “sickled foot”, ossia quello che molti insegnanti di danza chiamano “piede a banana”, che  presenta la tendenza a portare le dita in dentro quando si punta il piede. In questo caso bisogna tentare di lavorare su mobilità e forza della caviglia per raggiungere un buon allineamento, per la propria sicurezza, sia quando si indossano le scarpette da punta che quando si atterra dai salti.

Quello che sto cercando di spiegare, al di là di tecniche e metodi, è che per ottenere una danza onesta si dovrebbe partire da ciò che è presente in quel momento, cercando di migliorare senza cercare stratagemmi, percorsi alternativi o surrogati, limitandosi ad applicare ciò che la tecnica dice, senza sconti, nella consapevolezza e rispetto del proprio strumento.

Un altro trucchetto che molti usano è quello di sfiancare l’arabesque o l’attitude derriere, mantenendo la gamba meno incrociata rispetto al corretto posizionamento, per portarla più in alto e creare una linea migliore, o almeno questo è il processo di pensiero che sta dietro questa azione. Personalmente non amo questa tendenza neanche quando la vedo applicata in scena, luogo in cui è possibile anche prendersi qualche licenza poetica, tutto sommato.

Sebbene sia una modalità molto diffusa oggi, in risposta al nuovo trend imperante dell’iper estensione, quando questo accade la forma appare ai miei occhi come bi-dimensionale, senza profondità. A mio parere non esiste nulla di più elegante di un arabesque eseguito nel rispetto dei parametri dettati dalla tecnica: la reciproca ortogonalità delle linee, lo sviluppo nei tre assi cartesiani, la colonna vertebrale sostenuta, fanno di questa posa iconica la quintessenza dello stile. Gli arabesque tutti sbrindellati e “spalmati” che vedo in giro non sposano il mio gusto, forse un po’ retrò, ma abbiate pazienza, io pure posso essere considerata un articolo vintage.

Credo che questo modo di rubare, di “fregare” sia figlio anche della dichiarata frontalità della danza classica. La convenzione vede il pubblico sempre posizionato al di là della quarta parete, per questo sia durante la lezione che per le prove si rimane ovviamente orientati nello stesso modo. Quando si usa lo specchio ci si aggiusta tenendo conto solo di quel punto di vista, ma la danza non è un quadro, bensì una scultura, ovvero tridimensionale. Molto spesso il pubblico ci guarda anche dall’alto ed è proprio da questo punto di vista che l’arabesque esprime il suo potenziale di bellezza, quando eseguito correttamente.

Durante lo studio non se ne parla proprio di usare strategie sovversive. Ai miei studenti è severamente vietato fare qualcosa che non sia previsto dalla tecnica, ovviamente applicandola in modo non dogmatico, partendo sempre dal proprio strumento, da quel contesto di forme e spazi, entrando in confidenza con la posa che il proprio corpo produce applicando questi principi. L’arabesque potrà manifestarsi con la gamba al di sotto dei novanta gradi, ad esempio, non così ruotata da far scomparire il tallone dalla linea, oppure con un piede disteso normalmente e senza “ali”, ma questo non importa, si lavora al massimo dell’ingaggio fisico e mentale per quella che sarà la posa più autentica che quel corpo può produrre.

Essere fedeli a ciò che si è, con rispetto e intelligenza, senza forzare il corpo in movimenti e forme che possono danneggiarlo, è il primo passo per poter fare un lavoro coerente e d’integrazione, un’attenzione che raramente vedo in chi studia danza classica da tanto tempo, che solitamente si porta addosso anni e anni di forzature di varia natura. Molto più facile vedere un lavoro più armonioso in chi ha cominciato tardi, magari con meno conoscenza del codice e della sintassi, ma con un maggiore ascolto di come ci si sente nelle posizioni, più che preoccuparsi di come esse appaiono. Una volta raggiunta consapevolezza sarà quindi possibile anche spingersi un po’ più verso il confine, con una sufficiente percezione di sé per non oltrepassare i limiti, mantenendosi nella propria danza sempre stabili, presenti e onesti.

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