Lia Courrier: “La narrazione dell’artista maledetto: mito o verità?”

di Lia Courrier
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Durante un’amabile conversazione con una cara amica, siamo finite a parlare dei grandi artisti e delle loro storie personali. La mia amica è custode di notevoli talenti artistici, nel campo della musica, del disegno e in ogni sua azione nel quotidiano compiuta con mani creative e operose, dalla cucina ai biglietti di auguri. Ha studiato canto lirico e la sua insegnante ha più volte lodato e riconosciuto in lei un talento vocale adatto alla professione, tuttavia non ha mai sentito il richiamo verso il mondo dello spettacolo, così competitivo e aggressivo, mi dice sempre che non resisterebbe neanche un giorno, e come darle torto? Nel contesto professionale l’aspetto emotivo è tutt’altro che semplice da gestire, se non si ha un ego sufficientemente corazzato per sentirsi sempre forti davanti al pubblico.

Qualche giorno prima era andata a vedere il film sulla vita della Callas interpretato da Angelina Jolie e così,  al di là delle critiche al film (l’apprezzamento di un’opera è sempre soggettivo), abbiamo notato quanto spesso ponendosi di fronte alle esistenze tormentate dei grandi artisti, la sofferenza interiore si evidenzia come denominatore comune. Abbiamo parlato di Nureyev, di Misha, di Van Gogh, giusto per citare coloro le cui esistenze, dure e abrasive, sono note a tutti, ma la lista potrebbe continuare con Modigliani, Edith Piaf, Basquiat, Amy Winehouse, Caravaggio, Jimi Hendrix e molti altri.

I grandi artisti riescono a trasformare questa sofferenza, restituendola al mondo in forma di bellezza e quando questo accade, qualcosa di meraviglioso e anche spietato si manifesta. Il modo in cui alcuni di loro si fanno fagocitare dalla febbre della realizzazione artistica può essere incomprensibile per chi non è attraversato da questi moti interiori, a volte può sembrare spaventoso, ci sorprende ciò che un essere umano può fare, a quali altissimi picchi di dedizione, consapevolezza e maestria può arrivare. È lecito domandarsi quale energia li guidi e li sostenga in queste imprese che fanno di queste persone delle fiamme che bruciano intensamente, spesso anche in fretta.

La verità è che per alcune di loro l’arte è una questione di vita o di morte, non sono artisti perché lo hanno scelto, è piuttosto qualcosa che hanno fatto per salvare la loro anima, e questo a volte ha addirittura funzionato, se si pensa che alcune opere sono sopravvissute con successo all’artista che le ha realizzate e che è passato oltre, sul piano terreno.

Bisogna per forza essere portatori di drammi esistenziali per essere degli artisti di valore?

Non saprei se metterla proprio in questi termini, ma forse bisogna portarsi dentro un buco di qualche entità per trovare la forza di volontà di immergersi nella ricerca artistica in modo così totalizzante. Molti di questi artisti sono anche ricordati per il loro carattere spigoloso, per essere delle persone che pretendevano molto anche dagli altri, ma è così solo perché donarsi all’arte con tale devozione richiede intrinsecamente un anelare verso la perfezione ideale, che non riguarda l’estetica soltanto ma il Duende, il daimon selvaggio che vuole esplodere con la sua energia creativa e dirompente. Non ci si accontenta di meno, ci si dona con tutti gli strumenti e le risorse disponibili.

Questo buco nel cuore reclama di essere riempito con il consenso, con l’applauso, con il riconoscimento da parte del pubblico e della critica, elementi che spesso l’artista considera cruciali per sentirsi legittimato nel suo ruolo nel mondo e questo può portare a molto dolore quando, per i motivi più svariati e che magari esulano dalla persona e dalla sua opera, gli applausi non arrivano o le critiche stroncano.

Quante volte, lavorando nelle produzioni di opera lirica, mi è capitato di percepire l’agitazione dei cantanti prima di entrare in scena, in alcune occasioni si è trattato di veri e propri attacchi di panico per la pressione emotiva subita da chi è atteso in scena per un’esecuzione perfetta. Il pubblico della lirica sa essere caustico nel condannare un artista per qualche piccola imperfezione, la tensione a cui sono sottoposti è inimmaginabile.

Mi viene in mente una frase attribuita a Leonard Cohen (ma che in realtà pare compaia in un antico testo indiano) che dice: “c’è una crepa in ogni cosa e da lì entra la luce”. Così come giunge alla mia mente anche il Kintsugi giapponese, ossia la pratica di riparare gli oggetti di uso quotidiano come ciotole, tazze e piattini, colando dell’oro nelle linee di rottura, per fare di quella frammentazione un elemento unico e prezioso. È un bellissimo modo di osservare le proprie ferite e i traumi, di vederli, innanzitutto, essere in grado di affrontarli e attraversarli, permettendo ad un processo di guarigione di mostrarsi. 

Quando questo accade e si porta a compimento, però, lo status quo viene scosso fin dalle fondamenta, e non è detto che la persona che oltrepassa questo confine sia la stessa di prima, nella maggior parte dei casi grandi trasformazioni prendono progressivamente piede nelle scelte, nelle compagnie, nelle esigenze, nelle priorità e nei valori. Quando la persona è risolta, quando l’ego non è più così bramoso di consensi, ma cerca le risposte all’interno di sé, allora forse la scena potrebbe anche non essere più un luogo così desiderato. La ricerca personale si sposta da fuori a dentro.

Nella mia esperienza, piccola piccola, il palcoscenico è stato il luogo del cuore per tanto tempo, ogni volta calcato con gioia e gratitudine, ma ad un certo punto i percorsi personali che ho intrapreso, specialmente il mio viaggio con lo yoga, mi hanno portata verso una progressiva perdita di interesse nei confronti di quel mondo che per me era stato fino a quel momento l’unico possibile, l’unico in cui riuscivo a vedermi.

“Che peccato!” mi dice la mia adorata maestra, dall’alto dei suoi 80 anni vissuti in una totale immersione nella danza, ma cambiare è necessario, è salutare, fa parte dell’evoluzione cui tutti tendiamo, sarebbe strano se si restasse sempre uguali senza mai cambiare punto di vista sulle cose.

Al di là delle mie scelte personali, comunque, che penso non interessino a nessuno, la mia riflessione è: quando riesci a sanare quel buco, quando torni ad essere una persona integra, quando hai colato oro nelle tue ferite e riattaccato i pezzi insieme, sarà ancora così importante stare sulla scena? Si sentirà ancora questa spinta ad immolarsi per poter esprimere al meglio la propria arte? Sarà ancora una questione di vita o di morte?
Probabilmente potrebbe persistere il piacere di continuare a farlo ma forse cambieranno le motivazioni che stanno alla base di quel piacere, l’urgenza che spinge a esporsi davanti ad un pubblico.

Non esiste un modo giusto o sbagliato vivere, ognuno possiede la propria dose di libero arbitrio per condurre la vita nella direzione che ritiene più consona al proprio progetto, alla propria “ghianda” come direbbe Hillman. Persino i grandi artisti che si sono bruciati presto a seguito del proprio stile di vita e delle proprie scelte, non devono mai essere giudicati perché nessuno sa cosa si muove nel cuore delle persone, a volte non lo sa neanche la persona stessa, figurarsi gli altri. Le mie sono solo libere riflessioni su un mondo estremamente affascinante, sbrilluccicante, misterioso, profondo ma anche superficiale a volte, in cui si possono muovere energie molto contrastanti e potenti, nel vortice delle quali non è sempre possibile rimanere lucidi, con la capacità di discernere tra desideri e bisogni.

Certo è che il pubblico spesso ha potuto apprezzare opere sublimi, essersi riempito i sensi di suoni, immagini e parole che sono state anche di grande ispirazione ma che hanno poggiato le proprie gambe nel fango della sofferenza di chi quelle cose le ha dipinte, scritte, composte, danzate. Ancora di più bisogna essere grati per aver potuto assistere ad un tale miracolo, quando ci penso sento una grande tenerezza, oltre che ammirazione, per queste anime bisognose di amore.

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