Bandi di selezione delle produzioni di danza: braccio di ferro tra creatività e costi

di Francesca Gammella
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Quanti di voi si sono trovati, nel corso della propria carriera, a fare i conti con i bandi di selezione per produzioni coreutiche? Già vedo alzarsi un bel po’ di mani virtuali, e devo dire che sono tante! Ma quanti di voi, soprattutto se esclusi, hanno avuto un riscontro eloquente e chiarificatore di quel che “non andava” della propria proposta? Eh sì! Come immaginavo, qui di mani alzate non ne vedo affatto!

Oggi vi parlerò di un argomento un po’ più tecnico, legato al mondo della distribuzione della danza, e dei circuiti che ne sono collegati, toccando nello specifico un punto sostanziale, oscuro, enigmatico, quello dei criteri di valutazione.

La danza italiana, quella professionale, oltre alla produzione e quindi all’allestimento dello spettacolo in sé, necessita di una circuitazione dei lavori, pertanto nel tempo, come per il teatro, Festival, Rassegne, Enti e Teatri hanno iniziato a “selezionare” progetti coreografici attraverso bandi di selezione, appunto.

Al via, così, al colorito mondo della stesura dei “criteri di selezione”: una carrellata di indicazioni sulla durata massima della performance, sul numero dei componenti, sulla scheda tecnica, musiche, autori, cachet, curriculum di tutto il personale…anche quello della nonna! Per poi arrivare alla fantomatica fase degli allegati e tu passi una giornata intera ad allegare, allegare e …. ancora allegare documenti senza fine. E così dopo aver trascorso giorni e nottate (nel vero senso della parola) a confezionare tutto il materiale possibile, sei lì pronto a spedirlo guardandolo andare via come un figlio al primo giorno di scuola, fiero e commosso di avercela fatta!

Dopodiché? Il Silenzio!

Passano giorni, settimane, mesi. Con moto ossessivo visiti il sito dell’organizzazione per carpire eventuali comunicazioni, scorri interrottamente la posta elettronica nella speranza di trovare una traccia, un pensiero. Niente .. il deserto!

Poi un giorno quando ormai sei rassegnato o hai quasi dimenticato di aver partecipato a quel bando, ecco che arriva una mail, di quelle prive di anima, stile “mail tipo” in cui ti comunicano l’esclusione:

“Gentile partecipante,

grazie per aver preso parte alla nostra selezione. Quest’anno abbiamo deciso di scegliere altre tipologie di lavori, per cui ci dispiace comunicarti che la tua proposta non è stata selezionata. Ci auguriamo tu possa partecipare ai nostri prossimi eventi.”

Così, senza una parola di conforto, un cenno “personale” al tuo progetto, resti inerme davanti al monitor del pc, chiedendoti cosa rispetto a quei lavori “differenti” non abbia funzionato.

Ma tu questo non lo saprai mai. Perché benché ti venga chiesto di motivare ed illustrare il tuo processo creativo (di solito in 5000 battute spazi inclusi) non ti è concesso sapere perché il tuo lavoro non è tra quelli in finale.

E sei lì che brancoli nel buio senza aver ricevuto nulla in cambio. Senza esserti arricchito di un confronto, di una valutazione consistente che possa metterti in discussione o semplicemente ti permetta di capire cosa e perché il tuo lavoro non sia in linea con il mercato della distribuzione.

Ed eccoci arrivati al dunque: la distribuzione dello spettacolo e la fantomatica scelta di un lavoro coreografico.

È chiaro che più di un articolo ci vorrebbe un dossier sull’argomento, ma cercherò di delimitare l’argomento ad una riflessione aperta nel corso di un dibattito sulla pagina della nostra rivista online: la scelta della qualità artistica.

Tenendo conto di quanto illustrato in precedenza, tutte queste “selezioni” servono a costruire una chiara programmazione di un cartellone artistico, sia esso di un Festival o di un teatro, ma analizziamo le loro effettive esigenze.

Oggigiorno ci troviamo, ed in particolare nel mondo della danza, ad assistere a spettacoli sempre più essenziali: 1- 2 danzatori, un piazzato, uno spazio scenico non convenzionale (o non allestito). Mi chiedo quanto di questo sia veramente scelta di stile e quanto invece una necessità. Parliamoci chiaramente, nessuno investe in produzioni coreutiche grandi per due motivi sostanziali: costi elevati e poca affluenza del pubblico. Chi dunque investirebbe davvero in uno spettacolo artisticamente complesso ma che nella circuitazione ha costi elevati e poco vendibili? Forse quel famoso criterio di selezione è strategico e probabilmente non si premia la qualità ma la quantità (ridotta) del progetto.

Ma questo, non va proprio a vantaggio di chi lavora assiduamente per realizzare un’opera di qualità. Allora lasciamo andare tutto, prendiamo un danzatore mettiamolo in scena per mezz’ora semmai a guardare un punto fisso nello spazio e il gioco è fatto!

Se tutto ruota intorno a questo è chiaro che l’artista non deve fare la differenza artistica ma deve diventare il contabile di sé stesso! Uno che mentre crea deve pensare, ma quanto costa? Perché se non ragioni cosi rischi di realizzare un progetto che verrà sempre scartato.

Ed ecco che sul palcoscenico debuttano lavori sempre meno interessanti, dove il coreografo si trova continuamente a “mutilare” la sua creatività a discapito della produzione e distribuzione. E non creiamo falsi miti nel dire che un artista valido sa creare la bellezza dal nulla!  C’è bisogno di materia e di libertà, che sono palesemente negati.

Tutto questo circolo vizioso porta alla naturale conseguenza della snaturalizzazione della danza, un braccio di ferro tra la “vendita” di uno spettacolo e la sua “creatività”. Il pubblico si abitua a spettacoli che l’indotto gli offre senza avere l’occasione e l’opportunità di potersi confrontare con lavori artistici di qualità e questo non incentiva né l’artista né il pubblico stesso.

Purtroppo tutto questo nelle programmazioni dei cartelloni è celato dietro al non detto, e quelle selezioni rivolte al mondo dell’arte, sono le prime a porre dei paletti non dichiarati. Ecco, dunque, la risposta al nostro dilemma: non è l’idea sbagliata, il danzatore incompleto è il costo del lavoro a fare la differenza. È chiaro che un lavoro che non funziona esiste e che venga scartato è lecito, ma cerchiamo di pretendere da chi sottoponiamo il nostro lavoro più chiarezza e onestà.

Quando ci candidiamo ad una selezione stiamo mettendo in discussione in nostro lavoro sottoponendolo ad una valutazione. Riponiamo speranza, ci aspettiamo riconoscimenti, considerazioni. Il silenzio che invece ritorna è un atto a mio avviso “maleducato”.

Facciamo arte, ci mettiamo in gioco, osserviamo il mondo con occhi e sensibilità differenti, meritiamo una motivata risposta che ci porti al confronto, alla crescita e al miglioramento; l’arte è mutevole e il coreografo ha bisogno di un riscontro continuo e di misurarsi sempre per poter creare.

Ma siamo onesti, quante di queste organizzazioni danno un valore, morale e non economico, a tutto questo?

Foto: Khoa Võ

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