Al netto di una vita pienissima, per altro varia e ricca di esperienze diversissime tra loro, chi sei oggi? E come ti definiresti?
Trattasi di domanda difficilissima: ho sempre avuto la sensazione che dentro di me convivessero due differenti Beatrici. Quella legata al corpo, alla danza, la Beatrice che opera nella vita di tutti i giorni, lavorando, creando spettacoli, ballando sul palco e poi una Beatrice spirituale che si chiuderebbe in un ashram o in un convento a pregare tutto il dì. Non parlo solo della preghiera convenzionale ma anche della meditazione finalizzata a scoprire cosa accade quando si aprono i canali e si entra in connessione con l’universo. La sera, quando la giornata è conclusa e mi dedico alla meditazione è come se entrassi in una bolla in cui tutto si ferma, una dimensione parallela in cui continuo la mia ricerca spirituale e tento di arrivare alla pulizia dell’anima e del pensiero.
Chi sono oggi? Sono una persona in transizione tra la Beatrice ballerina, quella che ha danzato alla Scala fino a sette mesi fa e ciò che sarò in futuro.
Questa costante ricerca di spiritualità, che cosa ha dato in più al tuo essere danzatrice?
In realtà credo che questo aspetto così preponderante, mi abbia permesso di non identificarmi completamente con la ballerina. Identificarsi col proprio lavoro non è a mio avviso, una buona cosa. La carriera di una ballerina termina a 47 anni con la pensione. Se si è trascorsa una vita intera a “sentirsi” una danzatrice, una volta arrivati alla pensione, che cosa succede? Ho visto molta gente soffrire e non vedere alcun futuro davanti a sé. L’amore che ho per la vita, nei suoi molteplici aspetti, mi ha invece donato la possibilità di scegliere di fare la ballerina e non sentirmi una ballerina. Il che è molto diverso.
Sei nata in un contesto familiare in cui hai “respirato danza” sin da subito. I tuoi genitori, Beppe Carbone e Iride Sauri, tuo fratello Alessio sono stati e tutt’ora rimangono punti di riferimento importanti del nostro ambiente. Com’era la tua vita di bambina d’arte?
Che si trattasse di un contesto “straordinario” l’ho capito dopo. Da piccola, per me, era naturale nutrirmi di danza e vivere il teatro. Assistevo a tutti gli spettacoli, guardavo le prove, ascoltavo l’opera, conoscevo e crescevo accanto ai più grandi. Tutto era normale. Oggi, con la maturità di una donna adulta, posso dire di essere stata molto fortunata. Certo, il rigore della disciplina cui, in famiglia, tutti ci dedicavamo si portava inevitabilmente anche a casa; penso al chiletto in più da togliere o al non stare curva, al fatto che “una ballerina è ballerina sempre”. Ma è stato bellissimo crescere immersa in così tanta bellezza!
C’è qualcosa che ti ha tolto il fatto di essere cresciuta in una famiglia di questo tipo?
No assolutamente. Non avrei voluto crescere diversamente. Forse è stato più complicato avere la propria famiglia nell’ambito di lavoro. Se il sabato sera uscivo con le amiche e facevo tardi, l’indomani a lezione in Scala non mancava la frecciatina dei miei genitori. Ammetto però di non essermi mai privata di nulla: al di là della mia vita di ballerina del teatro, andavo verso ciò che la mia curiosità mi induceva a ricercare.
Frequenti ancora bambina la scuola di ballo, poi ti diplomi ed entri nella compagnia della Scala fino a diventare solista. Al di là della tecnica, ciò che traspariva dal tuo modo di ballare era l’incontenibile gioia e l’entusiasmo di fare ciò che stavi facendo. Ti ritrovi in questo pensiero?
Si è vero. Sono un’entusiasta di natura, ho un approccio quasi fanciullesco alla vita e alle possibilità che essa regala. E quando danzo, quando sono sul palcoscenico, mi innamoro letteralmente del pubblico. Ѐ come se un’ondata di energia fortissima arrivasse dalla platea e mi inondasse di calore e voglia di ballare. In quell’istante c’è uno scambio bellissimo fra me e il pubblico.
C’è stato un momento nella tua lunga carriera in cui questo tuo proverbiale entusiasmo è venuto meno?
Ho sempre vissuto la mia vita in Scala con grande gioia. Anche quando non ho più interpretato i ruoli principali ma quelli più pantomimici, ho cercato di approfondire altri aspetti dei balletti imparando delle cose. Forse la coda finale mi è pesata di più: gli orari, le presenze, i permessi da chiedere. Oggi spazio fra mille cose con maggiore libertà.
In tantissimi anni di carriera, c’è una serata particolarmente bella, una notte che non ti scordi di più?
Di notti bellissime, professionalmente parlando, ne ho vissute tante. Ma tra le tante, potrà sembrare strano, la più bella è stata il saggio dei 16 anni della scuola di ballo quando feci per la prima volta 32 fouettés in scena. Forse le prime volte rimangono maggiormente impresse, un po’ come il primo amore. Ricordo l’emozione della sera prima quando mi rivolgevo a mia madre raccontandole le mie paure; ricordo lei che mi tranquillizzava con quella leggerezza d’animo e di spirito che è propria dei componenti di tutta la mia famiglia. E poi la gioia di quel momento, quando li feci senza intoppi chiudendoli con la doppia pirouette. Gli abbracci delle mie amiche e delle assistenti dietro le quinte, la grande soddisfazione provata. Ecco, quel momento non lo scordo più.
E una particolarmente brutta? Che vorresti dimenticare?
Ahimè sì. Danzavo Kitri nel Don Chisciotte di Nureyev. Un altro cast vedeva protagonista Sylvie Guillem. Non mi hanno fatto provare praticamente mai. Vedevo la Guillem lavorare il personaggio tutti i giorni in maniera certosina e io non avevo la possibilità neppure di provare da sola perché non c’erano sale disponibili. In più, contemporaneamente a Don Chisciotte, provavamo Giselle in cui interpretavo Myrtha. Su tre atti ci furono una serie di imprecisioni che mi fecero provare una profonda vergogna. Ricordo che dopo lo spettacolo non volevo neppure uscire dal camerino.
Oriella mi ha detto: “La danza mi ha permesso di svegliarmi Carmen e di addormentarmi Gelsomina”. A te che cosa ha donato la danza?
Condivido il pensiero di Oriella. Grazie alla danza e ai personaggi interpretati ho potuto portare sul palco mille sfumature di Bea e farle vivere, ciascuna, con la forza e la potenza necessarie. E aggiungerei anche un grande rigore e una grande disciplina. E per una come me, un po’ “tutta per aria”, è stato fondamentale.
La danza è una scelta o un sacrificio?
Quando ami profondamente qualcosa non c’è sacrificio. La fatica quasi non si sente…
C’è un coreografo che hai sentito completamente affine a te e al tuo modo di danzare?
A parte mio padre, le cui coreografie ho amato da sempre, mi viene in mente Mats Ek. Quando papà dirigeva il corpo di ballo dell’Arena, e io ero ancora piccola, c’era sempre uno spettacolo di Mats ospite. Ricordo ancora le coreografie, e avevo solo nove anni. La morbidezza del movimento, l’utilizzo della musica, ogni aspetto del suo stile coreografico corrisponde al mio animo da ballerina.
C’è invece un coreografo le cui creazioni non hai amato ballare?
Ricordo le prove di Opera di Ratmansky: non voglio dire che il suo stile non mi fosse congeniale ma era troppo difficile. Lui è un amante delle prese e io soffro di vertigini. Non mi sono mai sentita a mio agio con i lift. C’era una coreografia in cui praticamente non toccavo mai terra. Un vero incubo.
Ricordi la sera del tuo addio alle scene?
La ricordo molto bene. Interpretavo la mamma di Clara in Schiaccianoci di Nureyev che fu, tra l’altro, il primo balletto che danzai a 15 anni sul palco della Scala come soldatino. Fu una notte molto emozionante ma ancora di più fu emozionante l’ultimo giorno in teatro, ovvero il 28 febbraio, il mese del compimento dei 47 anni. Quel giorno dopo aver salutato tutti, rimasi da sola sul palcoscenico; il sipario era chiuso e cominciai a rivivere i mille momenti vissuti lì, tra quelle tavole polverose. Poi venne mio padre a prendermi e mi riportò a casa: lui mi aveva portato alla Scala il mio primo giorno e lui mi riportava a casa il mio ultimo giorno. Quella notte mi sentii strana, preda di sensazioni che non riuscivo a identificare. L’indomani invece provai una grande leggerezza: avevo tagliato il cordone con la Scala.
Ti farò alcuni nomi e tu dovrai definirli con una parola.
Beppe Carbone.
Amore puro.
Iride Sauri.
La danza.
Alessio Carbone.
Risate.
Carla Fracci.
Carla era la luce. Dio entrava in lei quando danzava.
Oriella Dorella.
La bellezza.
Nicoletta Manni e Virna Toppi.
Nicoletta è computer giapponese. Virna Toppi è la follia
Roberto Bolle.
Lui è stato il mio primo grande amore. Roberto è un eletto. Riesce ad andare oltre ciò che è la vita di tutti i giorni.
E Beatrice Carbone?
Una donna che va in un senso opposto a quello verso cui vanno gli altri.
Sei felice?
Io sono sempre felice.
Photo: Brescia & Amisano, David Herrero