Carla Fracci: racconti, nomi leggendari; per lei semplicemente vita. Prima parte

di Francesco Borelli
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Capita, un venerdì pomeriggio qualunque, di pianificare un incontro con una donna descritta da artisti e poeti come “una regina della danza”, come “un’eterna fanciulla danzante”, come un’eterea e leggiadra figura che attraversa la vita in punta di piedi. Carla Fracci è indubbiamente tutto questo ma è anche una persona che ti accoglie con semplicità, capace di sorridere e abbracciarti, di raccontarsi come se gli avvenimenti straordinari che hanno caratterizzato la sua vita null’altro fossero che “cose che capitano e che non ho cercato”. E tu che la ascolti, dimentico dei tuoi quarant’ anni, torni un bambino emozionato e con il cuore che batte.

Signora Fracci, il suo libro “Passo dopo passo”, è il racconto della sua straordinaria vita. Attraverso ciò che è scritto, si colgono le emozioni che ha vissuto, prima di tutto. Un viaggio nella sua persona e in ciò che ha provato.

Scrivere un libro è una grande fatica. E’ stata la Mondadori a propormelo. E probabilmente, se non fossero venuti a casa a parlarmi e convincermi, non lo avrei fatto. Non voglio vivere nel passato. E’ successo così tanto e tutto è stato bellissimo. Grandi compagnie, grandi partner, grandi avvenimenti e tantissime emozioni. Tutto ciò che è stato, mi ha reso la donna che sono oggi e nel tempo, ogni singola esperienza, mi ha permesso di capire delle cose. Però il tempo passa e qualcosa dimentichi.

Una vita pienissima, fatta prima di tutto, di disciplina e dedizione.

Non esistono bacchette magiche. Dietro a ogni successo c’è un grandissimo lavoro. Ma non amo parlare di sacrifici. Piuttosto di scelte. Nessuno m’imponeva di essere la prima ad arrivare e l’ultima ad andar via. Non era scritto sull’ordine del giorno di usare ogni momento a disposizione per correggere e migliorare ciò che non era perfetto. Ogni debolezza, tecnica per esempio, la affrontavo anche da sola. Ritagliandomi il momento per poterci lavorare su. Ma era, appunto, una mia scelta.

Tecnica, gambe, braccia che parlano e poi interprete eccezionale.

Esistono tanti momenti nei balletti in cui non si danza. Momenti di emozione che non sono studiati. Ed è questa la bellezza della danza. Ricordo “Romeo e Giulietta” di Antony Tudor. C’è un momento, durante la vestizione di Giulietta per le nozze con Paride, in cui non facevo nulla. E le ragazze come angeli mi calavano l’abito dorato. Mi scendevano le lacrime. Mi sentivo andare incontro alla morte. Me la sentivo addosso. Beppe, che seguiva le prove, sentì Tudor dire con un sospiro: “Ah this golden dress!”. Ancora oggi, ripensando a quel momento e alla musica di Frederick Delius mi vengono i brividi.

Come spiega queste emozioni?

Non si possono spiegare. Il lavoro della ballerina è complesso. Bisogna capire tante cose. A volte anche il proprio partner, magari distante e stanco. Lo studio è fondamentale, la tecnica è importante. Ma poi esiste un mondo, sulla scena, che va al di là di tutto. E’ ciò che tu crei in quel momento e che è diverso dal giorno prima. Le emozioni non si possono ripetere. Scorrono in maniera inaspettata.

Ha mai perso un’occasione nella sua vita?

Io ed Erik Bruhn eravamo diventati una coppia da box office dei teatri degli Stati Uniti, e nel 1968 ci chiesero di ballare Coppelia. Sulla scia di una notorietà sempre maggiore il “Time” ci chiese di posare per la copertina. Ovviamente il giorno prima del debutto. Erik non era in perfetta forma e si tirò indietro. Io, dovendo danzare l’indomani il ruolo di Swanilda preferii non stancarmi. Fu un’occasione mancata. Sarei stata, forse l’unica italiana a comparire sul Time. Ma questa è la vita.

Qual è la sua forza? Cosa l’ha resa Carla Fracci?

Non lo so. Da bambina ero molto distratta, svogliata. I primi anni di scuola di ballo mi sentivo costretta. Volevo giocare, mi mancava la libertà della campagna. Poi a undici anni vidi Margot Fonteyn giunta in Scala per interpretare “La bella addormentata”. Tutto improvvisamente ebbe un senso; la sbarra, la fatica, la figura del maestro, la ripetizione infinita degli esercizi. Quando ero ancora ragazzina, Vera Volkova, nominata direttrice della scuola di ballo a Copenaghen, mi chiese di seguirla per proseguire con lei i miei studi. Lo stesso Cranko m’invitò a Stoccarda come prima ballerina. Aveva pensato il ruolo di Tatiana in Onegin per me. Ma in quel momento non lo seguii. Per fortuna ebbi la possibilità di interpretare quel balletto in Scala.

Lei ha interpretato più di 200 ruoli.

Credo che l’attitudine a interpretare ruoli tra loro differenti, abbia fatto la mia fortuna. Non mi sono fermata ai personaggi che gli altri pensavano fossero giusti per me. Da Giselle a Cenerentola, da Tatiana a Medea, dalla Karsavina nel film Nijinsky fino a Wanda Osiris in televisione. Un artista deve essere tante persone e interpretare tante vite. Non c’è studio, al di là dello stile. E’ puro istinto, pura magia. Come dicevo prima: ogni sera è diversa. Non sono solo la ballerina romantica con cui tanti m’identificano.

I primi ruoli sono arrivati quando era ancora giovanissima. Era ancora nel corpo di ballo e già le affidavano ruoli da prima ballerina. Come vive questa responsabilità una fanciulla con così poca esperienza?

In maniera del tutto inconsapevole. C’è solo un grande entusiasmo e la voglia, non so, di imitare Margot Fonteyn che emulavo. I suoi occhi, i suoi atteggiamenti, la linea perfetta.

Nel suo libro parla di “Eroi di un mondo che non c’è più”.Quali sono stati i suoi eroi?

Le persone che hanno creato, vissuto difficoltà, combattuto per la realizzazione di un sogno non vanno mai via per sempre. Sono senza fine. Rimangono nella memoria e dentro di te che con loro hai condiviso un percorso, un momento importante della vita. Pensi a Rudolf Nureyev, alle difficoltà che ha vissuto. O a Erik Bruhn, agli anni di fatica con l’American Ballet. Loro sono degli eroi. E non si dimenticano.

Lei si ritiene un po’ un eroina?

Le difficoltà ci son state, come per tutti. Sono sempre stata coerente con me stessa, ho guardato dritto verso il mio obiettivo e questo mi ha regalato cattiverie e maldicenze. Ma la mia maestra, Esmée Bulnes diceva: “Fate come Fracci: lei sa benissimo ciò che vuole. I commenti inutili le entrano da un orecchio e le escono dall’altro”.

Mi racconta un aneddoto della sua carriera?

Dovevo danzare “Giselle” a Londra. Mi sarei esibita nella terza recita dopo le prime due di Alicia Markova e Yvette Chauviré. Ebbi un incidente e mi feci male alla caviglia. Rischiai di non poter ballare. Feci un’iniezione e andai in scena. Non ricordo molto di quella serata, ero concentrata sul dolore. Nonostante tutto fu un enorme successo. Beppe mi racconta che John Cranko, Kenneth MacMillan e Lynn Seymour scesero dalla galleria e arrivarono sotto il palco ad applaudire. Esiste una magia che non cerchi, ma accade. E’ la verità di ciò che sei.

Si è sentita mai ferita o attaccata nella sua carriera?

Sì, spessissimo. Anche da ragazzina quando ero una semplice diplomanda della scuola di ballo. Camminavo con la schiena dritta lungo il ballatoio che portava alla Sala Trieste e mi gridavano “ti sei mangiata il manico della scopa”. In quella schiena dritta c’era tutta la mia determinazione. E il rispetto per il mio lavoro.

Ha mai subito delle ingiustizie?

Ero alla Scala e si portava in scena Schiaccianoci. Nureyev aveva espressamente richiesto che fossi io la Fata Confetto che, nella precedente versione, era interpretata da Liliana Cosi. Il teatro, però, faceva provare sempre lei mettendo me davanti a uno schermo. Ovviamente non ero per nulla preparata.  Rudy, come previsto, giunse cinque giorni prima di andare in scena e gli spiegai la situazione, dicendogli che non avrei potuto ballare. Impose la mia presenza e in due soli giorni, con un pianista, mi insegnò l’intero balletto. Il terzo giorno eravamo già in scena con l’orchestra. Rudy capì l’ingiustizia che avevo subito. E, a dispetto di ciò che tanti auspicavano, fu un grande successo.

Come gestiva l’emozione prima di andare in scena?

Avevo bisogno di grande calma. Non ero solita ricevere nessuno prima dello spettacolo né tantomeno parlavo d’altro dietro le quinte. Eccetto che in taluni casi. Controllavo il costume, le scarpe, mi godevo il silenzio e fumavo una sigaretta. Controllare che tutto fosse a posto prima di andare in scena ha evitato, a volte situazioni spiacevoli. A New York, per esempio, dovevo interpretare Giselle. Controllando i costumi mi accorsi che quello del secondo atto era completamente deformato. L’abito era stato lavato e… rovinato. Chiesi immediatamente un altro costume e mi portarono quello di Eleanor D’Antuono. Per fortuna aveva una taglia simile.

Cosa la rammarica oggi?

Il non avere una mia compagnia, non poter mettere a disposizione dei giovani danzatori la mia esperienza e la mia competenza. D’altronde le istituzioni non aiutano in tal senso. Sarebbe bello che mettessero a disposizione degli spazi adeguati che fossero in qualche modo rappresentativi. Purtroppo, però, questo non accade.

Carla Fracci è un’inesauribile fucina di racconti, aneddoti, nomi leggendrai che per lei, che la storia della danza l’ha letteralmente scritta, sono semplicemente vita. Non una ma mille interviste non basterebbero a dar notizia di un’esistenza così colma di bellezza e unicità. Ed io, comune mortale con l’onore di raccontare, attraverso le mie pagine, una divina, vi dò appuntamento al prossimo lunedì per la seconda parte dell’intervista. Perché i viaggi, quelli straordinari, non finiscono mai.

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