Nell’immaginario collettivo lei, Daniele, è “quello del balletto”. Colui che si fa portavoce di una danza dal respiro internazionale e di grande qualità. Come si definirebbe? Manager? Produttore?
Non è così semplice come potrebbe sembrare. In Italia la condizione della cultura e della danza in particolare è talmente difficile, da non permettere di incasellare la mia professione. Di certo mi piacerebbe essere definito direttore artistico, data anche la mia formazione da tersicoreo. Ma il mio lavoro comprende mille aspetti. Sono un produttore, ma anche un distributore. Lavoro che a volte faccio controvoglia, quello del distributore, ma che nessun altro, all’interno del mio staff, potrebbe svolgere.
Perché?
Perché è un mestiere che si fonda sui rapporti personali, sulla fiducia dei direttori dei teatri, dei festival e degli artisti. Forse la parola che racchiude tutti questi aspetti è impresario. Termine dal sapore storico che ricorda Diaghilev e le sue tante attività.
In effetti, il ruolo che ricopre fa pensare in automatico all’impresario teatrale russo e al mondo da lui creato.
Diaghilev ha unito i più grandi artisti del suo tempo. Era un impresario, ma al contempo si occupava della parte artistica e ne curava ogni singolo dettaglio. E’ in questo tipo di ruolo che mi ritrovo e con il quale mi piacerebbe essere identificato. Certo, prendendo umilmente le distanze dal genio e dalle immense capacità di un personaggio come Diaghilev.
Che apporto ritiene di dare alla cultura della danza in Italia attraverso il suo lavoro?
Amo profondamente ciò che faccio. Quando ho messo in piedi, per esempio, il progetto con Mats Ek, Ana Laguna, Suzanne Link e Dominique Mercy e che porteremo a Bucarest il 7 e l’8 ottobre prossimi, ho soddisfatto innanzitutto un mio desiderio. L’aspetto produttivo, di guadagnare o rimetterci, è una questione, per me, secondaria. Credo che oggi, essere portavoce di grande cultura sia difficile. Non esistono più gli artisti e le condizioni storiche dei tempi di Fokine o Massine o Picasso. Nel mio piccolo, però, m’impegno e cerco di fare tutto ciò che è nelle mie possibilità.
Un merito che mi riconosco è quello di salvaguardare il nostro repertorio italiano. Ho recuperato, per esempio, tre allestimenti storici di Aterballetto: Schiaccianoci, Carmen e Coppélia di Amedeo Amodio. Il mio obiettivo, tra i tanti, è di recuperare alcuni lavori che sono simbolo di grande creatività.
Lei nasce come danzatore. Poi ha sviluppato altri grandi talenti. Com’è nata questa sua seconda vita?
La mia famiglia viveva in una cittadina non distante da Roma. Mia sorella iniziò a studiare danza in una piccola scuola ed io, incantato, la seguii. La danza classica, però, mi annoiava e così cambiai scuola per dedicarmi alla danza moderna. Uno degli insegnanti era un ballerino del programma “Fantastico”. Un giorno si assentò e lo sostituì un danzatore del Teatro dell’Opera di Roma. Negli spogliatoi gli raccontai di me. Fu lui a parlarmi dell’Accademia Nazionale di Danza. Dopo essermi adeguatamente preparato feci l’audizione ed entrai al secondo corso, portando a termine il percorso fino all’ottavo anno.
Cosa accadde nel frattempo?
Sin dall’inizio capii che non era il lavoro del danzatore che m’interessava. Volevo dedicarmi ad altro. Cominciai a organizzare stage, conferenze e per qualche anno affiancai Alberto Testa. Contemporaneamente studiavo al liceo coreutico. Dal giorno seguente all’esame dell’ ottavo corso, smisi definitivamente. Gli anni dell’Accademia però furono importanti: mi accesero la curiosità verso le cose, il desiderio di imparare e conoscere.
Crede che una formazione accademica in senso ballettistico unita a una di tipo maggiormente enciclopedico abbia in qualche modo favorito il suo successo?
Credo che la formazione dipenda innanzitutto da noi. Dalla nostra curiosità. Ho studiato, letto, imparato e visto perché erano mie esigenze personali. Il successo nel nostro lavoro dipende dalle capacità di ciascuno, unite a una piena consapevolezza del mondo in cui ci muoviamo.
Esistono oggi i grandi miti come potevano essere Nureyev, Alicia Alonso, Carla Fracci o Baryshnikov?
Non credo si possa fare un paragone con quegli anni e quegli artisti. I nostri tempi sono dominati dall’immagine. Se ci pensi le grandi star della danza, attualmente sono Eleonora Abbagnato e Roberto Bolle. Due grandissimi artisti certo, ma anche persone di bellissima presenza che fanno leva sul senso estetico e la ricerca della bellezza che oggi la fa da padrona. E’cambiata l’idea del divismo e delle star.
Si vede come direttore di un teatro o di una compagnia?
Dipende da quale teatro, dalla libertà che avrei nel creare, dalle disponibilità.
Ciò che contraddistingue il suo lavoro è la grande capacità di “creare l’evento”. Attorno alla rassegna, al tour o allo spettacolo del caso, organizza una rete d’incontri, convegni, conferenze che completano il “prodotto” che propone.
Si è vero. Ripenso al “Tributo a Nureyev”. Il giorno prima del debutto qui a Roma invitai le tre partner italiane del danzatore: Elisabetta Terabust, Carla Fracci e Luciana Savignano. Nel caso dell’evento con Mats Ek e Ana Laguna, elaborai un percorso formativo seguito da Leonetta Bentivoglio. Mi piace che ciò che propongo possa essere approfondito da ogni punto di vista. E completare in tutti i modi possibili l’offerta per il pubblico.
Alberto Testa è stato il fondatore del “Premio Positano”. Ora al suo posto c’è lei.
Sono subentrato al maestro Testa sei anni fa dirigendo il Premio per cinque anni e ristrutturandolo secondo il mio modo. Testa è una persona che ammiro molto. Credo che in pochi abbiano la conoscenza storica della danza che possiede lui. Gli voglio molto bene. Ma il tempo passa. Il Premio era organizzato sulla base delle scelte del Maestro ed era diventato difficile per lui viaggiare per il mondo e stare al passo con ciò che si vedeva sui maggiori palcoscenici internazionali.
Nel 2008 Domenico De Masi mi aveva nominato consulente per la danza al Festival di Ravello dove, fra l’altro, creai la memorabile serata evento che vide insieme le donne della compagnia di Martha Graham e gli uomini della compagnia di Josè Limon. Nel 2009 il Comune di Positano chiese alla Fondazione Ravello di realizzare un Festival che si chiamava “Positano Meet Festival” e De Masi mi mise a disposizione il suo staff. In quell’occasione creai la serata più bella, più magica che abbia mai organizzato. Una notte di danza realizzata sull’isola di Li Galli che fu proprietà prima di Massine e poi di Nureyev. In seguito il Sindaco mi chiese di presentare un progetto per il Premio Massine: tra i punti per me principali c’era la nomina di Testa a presidente onorario. Il mio progetto, di respiro internazionale, piacque e il Premio tornò al suo antico fulgore.
Per il prossimo anno vedremo ciò che ci riserva il futuro…
Quanto si scontra, nel suo lavoro, con la realtà politica che spesso e volentieri costituisce un ostacolo alla realizzazione di progetti culturali?
Se decido di fare qualcosa cerco di realizzarla in tutti i modi. Non curandomi del politico di turno. Sono una persona coraggiosa e, forse, persino folle. Bisogna credere nei propri progetti e buttarsi. A prescindere da tutto.
La sua persona e gli eventi che organizza sono garanzia di qualità. Tra i tanti meriti anche quello di aver riportato Alessandra Ferri sulla scena.
Ho sempre amato Alessandra. Fin da piccolo la seguivo e l’apprezzavo. A quindici anni creai anche l’Alessandra Ferri Fan Club. “Evolution” però è stato prodotto dalla agenzia che segue Alessandra. Io mi sono occupato solo di presentare la serata qui a Roma all’Auditorium Parco della Musica.
Qual è l’evento che vorrebbe organizzare in futuro?
Mi piacerebbe ampliare il progetto “Quartet” e a tal proposito ho già sentito Nacho Duato e William Forsythe. Vedremo. Le idee sono tante. Ambiziose, ma fattibili. Ciò che vorrei in assoluto e avere il tempo di curare nel dettaglio le cose. Invece è sempre una corsa contro il tempo.
Lei è riuscito a toccare con mano la grandezza di tanti e renderla fruibile. Ha creato splendide serate, gala indimenticabili, sfruttando location magiche e avendo a disposizione nomi tra i più importanti al mondo. Il suo lavoro si colora di una straordinarietà rara. Eppure sembra che lei non ne abbia consapevolezza.
No, sono consapevole delle cose che faccio e della bellezza di alcune eventi di cui mi sono occupato. La serata Visconti a Villa Olmo con Eleonora Abbagnato, ad esempio, non la dimenticherò mai. Però credo che le cose grandi siano altre nella vita. E chissà, forse è questo il mio punto di forza. Sono orgoglioso del mio passato, ma guardo avanti.
Le faccio dei nomi e lei deve dare una definizione di queste persone. Iniziamo da Carla Fracci.
Carla Fracci è Carla Fracci. Non è suscettibile di definizione.
Beppe Menegatti.
Vorrei avere un quarto della sua energia ed esperienza.
Eleonora Abbagnato.
E’ una sorella. La amo da tanti punti di vista. Al di là della grandezza dell’artista.
Elisabetta Terabust.
Una grande e irripetibile donna ed artista.
Luciana Savignano.
E’ una donna umile oltre ad essere un’interprete unica.
E Daniele Cipriani?
Non lo conosco…