Dario Elia: “La danza mi ha donato la libertà, mi ha permesso di respirare e infine sentirmi pienamente me stesso”

di Francesco Borelli
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Da calabrese non posso esimermi dal farti una domanda che probabilmente ti hanno posto già un milione di volte. Come può nascere la passione per quest’arte in un ragazzino di Catanzaro negli anni 90? 

Ero un bambino molto riservato, quasi chiuso in un mondo tutto mio in cui disegnavo, leggevo, ascoltavo Maria Callas. Mia sorella e mia cugina studiavano danza e, come tutti in famiglia, ero costretto ad assistere ai saggi di fine anno. 

La danza mi colpì subito, tanto da decidere di iniziare a studiare di nascosto presso la scuola Artedanza: seppure fossi innamorato di ciò che facevo, avevo la sensazione che fosse una cosa sbagliata. Poi mia madre lo scoprì, e forse per proteggermi dalle maldicenze, entrambi i miei genitori mi intimarono di lasciare. Fui però irremovibile e decisi di fare lo sciopero della fame fino a che non si decisero a lasciarmi fare ciò che desideravo. Dopo qualche mese di lezioni arrivarono in scuola per uno stage il Maestro Podini e la Signora Anna Maria Prina, che, intravedendo in me delle qualità, proposero ai miei insegnanti di farmi sostenere l’audizione per la Scuola di ballo del Teatro alla Scala. Feci l’audizione e mi presero al terzo corso. Avevo 13 anni e per fortuna godetti dell’appoggio e del sostegno della mia intera famiglia e di tutti i miei amici. 

Quando hai preso piena consapevolezza del fatto che questo sarebbe stato il tuo lavoro? 

Sin da subito sono stato molto concentrato sull’obiettivo, estremamente determinato. Forse in maniera eccessiva. Arrivavo sempre due ore prima delle mie lezioni per riscaldarmi e guardare le altre classi, così da apprendere più velocemente ogni nozione. Ero impaziente di imparare e non mi risparmiavo mai. Certo, non fu affatto facile. Ero lontanissimo da casa e le pressioni erano innumerevoli. Ricordo che vivevo, insieme ad altri cinque aspiranti ballerini, al convitto Longone, oggi abitato per lo più da danzatori ma allora luogo deputato ai ragazzi che facevano calcio con le giovanili dell’Inter e del Milan. Le prese in giro e le battute erano all’ordine del giorno. Era comunque la mia casa.  

Al sesto corso poi, con Nikonov, la Colombini e l’Alexandrescu capii che avrei amato profondamente insegnare, 

Poi arriva la Royal Ballet School.. 

Durante l’estate dei miei 16 anni partecipai alla summer school della Royal Ballet. A fine percorso mi proposero un’importante borsa di studio per la scuola di ballo e, a malincuore, accettai. La mia non era una famiglia ricca e mantenermi a Milano era uno sforzo davvero troppo grande. A Londra sarei stato spesato di tutto e non potevo buttar via questa occasione. Così, partii per Londra e lì mi diplomai dopo due anni di studi. 

Dopo, però, sei tornato a casa. 

Dopo una breve esperienza a Zurigo, non particolarmente felice, tornai alla Scala. Durante le vacanze di Natale mi ero recato a Milano a far lezione con la compagnia. Durante la lezione Vaziev si avvicinò e mi chiese: “Quando cominci con noi?”. Rimasi quindi alla Scala e lavorai con la compagnia per circa due stagioni. 

Oggi, col senno di poi e le innumerevoli esperienze di lavoro accumulate, che cosa, secondo te, spinge i ragazzi a migrare all’estero e tentare una carriera internazionale? 

Il desiderio di fare, di lavorare, di mettersi costantemente alla prova. In Italia la burocrazia, i sindacati, hanno un peso che spesso prescinde dal talento e dalle capacità. All’estero, se sei bravo, se sei adatto al ruolo, non contano l’età né gli anni che hai trascorso in corpo di ballo. C’è maggiore libertà. 

A 21 anni lasciasti nuovamente la Scala per iniziare il tuo percorso ad Amsterdam dove sei rimasto per 10 anni. Se devi pensare alla notte più bella di questi dieci anni, quella che non ti scordi più, a quale pensi? 

Penso a quando ho interpretato Hilarion in Giselle. Per la prima volta ho sentito una connessione profonda tra le emozioni, l’arte e la tecnica. Ed è come se in quel momento il Dario scaligero avesse incontrato ciò che ad Amsterdam stavo diventando. Quasi come se un cerchio si fosse chiuso. In Olanda ho avuto grandi occasioni, ho ballato nei più grandi teatri del mondo, molti giganteschi nomi della coreografia hanno creato su di me. Ma la Scala mi è sempre un po’ mancata. Forse, in quanto italiano, l’artisticità che si respira quando sali su quel palcoscenico, difficilmente puoi provarla altrove. 

Se devi pensare alla notte più brutta invece? A quale pensi?

Ricordo una rappresentazione del balletto Cenerentola. Pensavo continuamente a mio padre; non stava bene e dopo pochissimo ci lasciò.

Hai smesso di ballare a soli 30 anni, in un momento estremamente positivo della tua carriera, per dedicarti all’insegnamento. Perché? 

È l’idea stessa di trasmettere ad altri ciò che tu sai, o dovresti sapere. Questo il motivo principale che nel tempo mi ha condotto a ciò che oggi faccio. Ad Amsterdam già a 23 anni mi capitava di dare lezione alla compagnia e spesso mi trovavo in sala danzatori immensi. Nell’insegnamento cerco sempre e solo di essere me stesso. 

Che cosa significa essere sé stessi nell’atto di insegnare?  

Significa darsi completamente agli altri, dimenticare ciò che si è stati come ballerini e usare la tua esperienza come un mezzo per formare gli altri. Fermo restando che non sempre ciò che era giusto per te andrà bene per un altro individuo con un fisico differente ed anche un carattere diverso. 

Per diventare Maestro della Scuola di ballo ad Amsterdam hai dovuto partecipare ad un concorso cui hanno partecipato 180 candidati.  

Esattamente, e per i primi 6 mesi continuai a ballare con la compagnia e contemporaneamente a insegnare. Fu molto faticoso ma ero felicissimo di ciò che stava avvenendo nella mia vita. 

Non solo insegnante però; nel 2022 vieni nominato Deputy Artistic Director dell’Accademia del Dutch National Ballet.  

Ho sempre amato aiutare gli altri, mettermi a disposizione di chi aveva bisogno di sostegno e aiuto. Mi son domandato quindi cosa potesse esserci oltre all’insegnamento. L’unico step successivo poteva essere la direzione. E qui ad Amsterdam mi han dato grandi possibilità di crescita. Prima la coordinazione della summer school, dei progetti interni, poi il lavoro degli allievi nelle produzioni del teatro e la comunicazione tra il teatro e la scuola. Intanto il Direttore della scuola decise di lasciare e i miei colleghi, cosa che mi commosse moltissimo, scrissero una lettera al Direttore generale (l’Accademia è parte di una grande università) sottolineando quelle che erano le mie qualità e i motivi per cui avrei dovuto ricoprire quel ruolo. E oggi sono qui. 

La mia ambizione oggi ha un colore diverso: educare e formare nuovi ballerini e chissà, nuovi maestri, critici di danza, e tutto ciò che la danza può creare. 

Qual è la qualità principale che ti riconosci come danzatore? 

La determinazione. 

Come insegnante? 

La pazienza. 

Se invece devi pensare a un difetto? 

Come danzatore, l’impazienza. Rimanevo ore e ore in sala fino a che un passo non veniva come desideravo venisse. A volte senza riflettere e impuntandomi fino allo sfinimento. Come insegnante devo imparare ad abbracciare un nuovo modo di insegnare, un modo più “attuale” di rivolgermi ai ragazzi per farmi capire. Devo, dal mio punto di vista, essere più empatico. 

Oriella Dorella mi disse: “La danza mi ha permesso di addormentarmi come Carmen e di svegliarmi Gelsomina”. A te cosa ha donato? 

La libertà. Con la danza ho iniziato a respirare e ho potuto finalmente essere me stesso. 

Al netto della narrazione della tua vita fino a questo momento che definizione di felicità daresti? Che cos’è per te la felicità? 

Mi rende felice pensare che una briciola di ciò che ero da bambino, quando sognavo di lasciare la Calabria per poter danzare ed essere me stesso, sia ancora lì. Il tempo cambia le cose e cambia le vite delle persone. Ma è importante rimanere coerenti con ciò che si era e si desiderava. E poi mi rende felice andare a dormire la notte e sentirmi pulito, in pace, consapevole di aver dato il meglio e di essermi comportato nel migliore dei modi possibili. E forse, è proprio questa la felicità. 

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