Dopo l’aggressione omofoba a Matteo Levaggi, la nostra Susanna Mori ci racconta “il sottile gusto dell’odio”

L'odio si apprende a scuola, negli ambienti di lavoro, dai media e dai social media e si apprende anche a casa.

di Susanna Mori
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Noi umani non nasciamo sapendo odiare.

Arriviamo su questa terra con un bisogno degli altri, con la necessità del contatto fisico, emotivo.

Abbiamo innegabilmente bisogno di amore per svilupparci e diventare adulti.

L’odio quindi si apprende. Si apprende a scuola, negli ambienti di lavoro, dai media e dai social media e si apprende anche a casa.

Ma da cosa nasce l’odio?

La causa principale è l’incapacità di accettare che tutti gli esseri umani non potranno mai essere uguali e quindi rispecchiare un modello di perfezione che risiede solo nel nostro immaginario.

I crimini d’odio si basano su stereotipi, pregiudizi o sentimenti estremamente negativi nei confronti di determinati gruppi o persone singole e l’obiettivo degli odiatori è comunicare loro che non sono bene accetti, che sono “sbagliati” e che quindi devono essere “eliminati”.

Ciò che sorprende è che le vittime generalmente non hanno fatto nulla di specifico: sono terrorizzate per quello che sono e non per quello che hanno fatto. Questo le fa sentire impotenti e incapaci di controllare la situazione perché cambiare il loro comportamento o i loro atteggiamenti comunque non aiuterebbe a risolvere il problema.

Ma torniamo alla domanda principale: perché odiamo gli altri? Da Freud in poi gli psicologi hanno capito che ciò che le persone odiano degli altri sono le cose che temono dentro di sé. In pratica, guardiamo le persone o i gruppi come se fossero uno schermo cinematografico sul quale proiettiamo parti indesiderate di noi stessi. L’idea è: “Non sono io il cattivo, i cattivi siete voi”.

Questo fenomeno si chiama “proiezione” e descrive la nostra tendenza a rifiutare ciò che non ci piace di noi stessi. Lo psicologo Brad Reedy descrive ulteriormente la proiezione come il nostro bisogno di essere buoni, che ci fa proiettare la “cattiveria” verso l’esterno e attaccarla.

Abbiamo sviluppato questo sistema per sopravvivere, perché ogni “cattiveria” in noi ci metteva a rischio di essere rifiutati e soli. Abbiamo quindi represso i tratti del nostro carattere che gli altri ritengono “non amabili”, moralmente riprovevoli, cattivi e quando li vediamo negli altri ci ergiamo a GIUSTIZIERI.

Ed è proprio questo su cui dobbiamo riflettere: l’odio può essere rassicurante e autoprotettivo, perché il suo messaggio è semplice e aiuta a confermare la fede delle persone in un mondo giusto.

L’odio è associato al fatto che riteniamo che alcune persone o gruppi siano una reale minaccia nel nostro mondo giusto. Il fatto di credere in un mondo giusto implica che crediamo che la giustizia venga esercitata affinché le persone ottengano ciò che si meritano. Quando un individuo diventa vittima di un crimine d’odio sulla sola base della sua identità di gruppo o personale, gli osservatori possono ripristinare la loro fede in un mondo giusto denigrando la vittima.

Va anche detto però che la risposta al motivo per cui odiamo risiede non solo nella nostra struttura psicologica o nella storia familiare, ma anche nella nostra realtà culturale e politica. Viviamo in una cultura di guerra che promuove la violenza, in cui la competizione è uno stile di vita. Nella nostra società attuale si è più pronti a combattere che a risolvere i conflitti. Temiamo di relazionarci perché implicherebbe rivelare qualcosa su noi stessi. Ci viene insegnato a odiare il nemico, ovvero chiunque sia diverso da noi, il che lascia poco spazio all’ empatia e alla comprensione. La pace è raramente l’opzione.

Esempio: In Gran Bretagna c’è una grande cultura calcistica e la domenica i parchi si trasformano in piccoli stadi dove squadre di bambini, in perfetta tenuta sportiva e con i rispettivi allenatori, si sfidano in partite “all’ultimo sangue”. Dico all’ultimo sangue perché’ ogni volta riscontro con orrore che una gran parte dei genitori, che assistono a queste intense partite “amichevoli”, incitano i loro dolci pargoli a buttare a terra, far cadere, annientare, fiaccare, indebolire, avvilire l’avversario con termini e verbalizzazioni che incitano all’odio verso il rivale.

E ora arriviamo agli aspetti che mi stanno a cuore: l’assenza di punizione e l’educazione al rispetto.

Il fatto di tacciare questi atti criminali come “casi sporadici non significativi”, “ragazzate”, “atti asociali legati alla giovane età” segnala che la violenza, non solo contro un individuo ma contro un intero gruppo, se non proprio giustificata non assurge comunque allo status di crimine penale di cui doversi preoccupare.

In un mondo che glorifica la violenza e detesta la diversità sessuale, violare le norme diventa la scusa perfetta per i giovani da usare per dimostrare la loro mascolinità, ottenere l’approvazione sociale e allontanare la noia.

Troppo spesso ci voltiamo dall’altra parte quando vediamo episodi di bullismo e odio verso qualcuno o qualcosa che riteniamo non appartenere al nostro piccolo mondo. Non lo facciamo per cattiveria, ma spesso pensiamo che non sia il nostro problema.

Invece è il nostro problema, ieri, adesso e sempre.

Cosa possiamo fare al riguardo? Ignorarlo e sperare che scompaia, augurandoci che le cose miglioreranno da sole? Oppure insegnare nelle scuole un’altra storia, dove vengano sviluppate delle norme di vita inclusive affinché tutti i bambini comprendano la diversità che esiste nelle nostre comunità e soprattutto ne capiscano la loro appartenenza?

La spinta a dividere lungo la discriminante “loro” e “noi” è molto forte.

I bambini di oggi sono gli adulti di domani ed il fine ultimo di tutte le istituzioni dovrebbe essere quello di sviluppare la futura coesione della comunità.

Il cambio inizia in classe, a casa, al parco giochi, ovunque ci sia interazione tra i bambini, i ragazzi e gli adulti coinvolti.

I nostri figli sono destinati ad andare per il mondo, occupando ruoli nelle nazioni dove vivranno. Vogliamo che i nostri figli sostengano l’inclusione e celebrino la diversità, che accettino tutto ciò che incontrano.

Vogliamo che non si sentano mai degli esclusi.

Diamo loro una lezione diversa che consista nell’amare e nel dimostrare amore. Parliamone, usiamo ogni occasione per intavolare un dibattito intorno alle differenze umane che rispetti i punti di vista di tutti.

Certamente non possiamo pensare di risolvere da soli il problema dei diritti umani, ma possiamo pensare attivamente all’odio, a come offusca ogni ragionamento e combattere le ideologie che ne aggravano il problema.

Abbiamo bisogno di sfidare noi stessi, di disimparare ciò che abbiamo imparato e di lottare con tutte le nostre forze contro l’attrazione verso questo sottile e velenoso gusto dell’odio.

Forza Matteo, i colpi sull’anima sono peggio di quelli sul corpo. Abbi cura di te e non cessare di essere te stesso.
Riaffermare il diritto all’ identità individuale e di gruppo, continuando ad amare e a rispettare il nostro prossimo sono le armi più efficaci per sconfiggere la violenza dell’odio.

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