Francesco Ventriglia: “Ciascuno di noi può scegliere di essere felice”

L'intervista del nostro Direttore Francesco Borelli

di Francesco Borelli
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Incontro Francesco Ventriglia in occasione della prima mondiale di “A Thousand Tales Ballet”, meraviglioso balletto da lui firmato e andato in scena il 6 e il 7 gennaio scorsi presso il Teatro dell’Opera di Dubai. Non conoscevo personalmente Francesco se non per qualche telefonata tra noi intercorsa e ovviamente per il suo lavoro. Ciò che mi ha colpito è la bellezza dei modi, l’approccio gentile alla vita e alle persone e se il tempo non fosse stato ladro, sono certo che questa chiacchierata sarebbe durata a lungo e tanti temi ancora avremmo potuto trattare.

“A Thousand Tales Ballet” è una bellissima favola la cui storia racchiude tante storie: Cenerentola perde la scarpetta al ballo e il principe chiede al Bianconiglio di trovare la principessa cui la scarpa appartiene e di cui si è innamorato. Inizia un viaggio in un mondo straordinario in cui tante fiabe si incrociano.

Perché hai deciso di raccontare una favola?

Questa creazione è arrivata nel momento più difficile della mia vita. L’inizio del lavoro in sala ha coinciso, infatti, con la perdita della mia mamma. Ciò ha fatto sì che la favola all’interno della mia vita quotidiana acquisisse un valore più importante. Non intendo il semplice racconto ma la possibilità di rendere la propria vita una favola, creando un mondo migliore, aggiustandolo e scrivendo, ciascuno, la propria drammaturgia, col solo fine di essere felici. Il bello delle favole è che si sceglie sempre; e noi possiamo scegliere la felicità.

In questo momento avevi bisogno di un lieto fine?

Soprattutto di un posto felice. Lo spettacolo celebra l’amore, l’amicizia, il pensiero positivo. Spesso sprechiamo tanta energia dietro a ciò che di brutto esiste nella nostra vita, senza pensare a ciò che di bello invece abbiamo intorno a noi. Oggi non siamo in grado di dare valore al tempo, alle amicizie, alla bellezza, alla gioia che vive in mille sfumature.

Nel caso dello spettacolo la musica è stata creata pensando a delle storie e a dei personaggi che dovevo usare. E come poter fare interagire il principe di Cenerentola col Bianconiglio o i tre moschettieri?  Da lì l’idea di usare Cenerentola come linea drammaturgica di base che potesse essere un collante fra le tante storie. Desideravo creare un racconto leggibile che potesse soddisfare un pubblico vario, magari anche chi andava a teatro per la prima volta, in una città, Dubai, che non conoscevo, mettendo dentro me stesso e il mio mood positivo.

Quindi il pubblico ha ancora bisogno di fiabe?

Si, ha bisogno di bellezza. In questo momento storico non vale più tanto il postulato secondo cui il teatro deve educare il pubblico. Certamente è compito di un coreografo, come di qualsiasi altro artista che porta in scena uno spettacolo, donare qualità, precisione, attenzione al dettaglio e al bello. Io ho sperimentato vocabolari differenti, ma sono convinto che la danza classica e il balletto narrativo consentano a questa forma d’arte di essere longeva, e al pubblico di approcciare una disciplina che andrebbe altrimenti perduta. La favola si inserisce perfettamente in questo concetto: regalo al pubblico una storia, chiara, fruibile, la propongo attraverso un lavoro eccellente da un punto di vista qualitativo consentendogli di conoscere il linguaggio classico nella sua forma più pura e poi, al contempo, gli racconto una favola, ricordandogli che in fondo, ancora adesso tra mille difficoltà, può esistere il lieto fine e chissà, anche la felicità.

Protagonisti di “A Thousand Tales Ballet” sono alcuni danzatori italiani tra i più in vista dell’ultimo periodo: Anna Chiara Amirante e Alessandro Staiano, étoile del Teatro San Carlo di Napoli, Alessio Rezza e Susanna Salvi, étoile del Teatro dell’Opera di Roma e Alessandro Riga, Giada Rossi e Mario Galindo, danzatori della Compagnia Nazionale di Madrid. Perché la tua scelta è caduta proprio su di loro?

Ad alcuni di loro mi lega una storia antica. Alessandro Riga era Primo ballerino quando dirigevo il corpo di ballo a Firenze, cosi come Susanna che faceva parte della fila e a cui diedi il primo ruolo importante ne “La Sylphide”. Staiano e Amirante sono una bellissima scoperta. Così come Giada Rossi, meravigliosa danzatrice che mi ha colpito da subito. Anche Mario Galindo non lo conoscevo ma è un danzatore di immenso talento con cui mi ha fatto piacere condividere questa esperienza. Alessio Rezza lo conobbi ancora bambino. Partecipava infatti a “Giallo Settecento” lo spettacolo che la Signora Anna Maria Prina, allora Direttrice della Scuola di ballo della Scala, mi chiese di coreografare per l’Accademia. Non ho potuto avere danzatori del Teatro alla Scala perché purtroppo le date non coincidevano. Ho lasciato l’Italia nel 2013 e mi manca molto. Questa creazione è stata un’occasione per riavvicinarmi, in qualche modo, al mio paese.

La percezione che si è avuta durante lo spettacolo è di una grande energia positiva e di una volontà forte, da parte di tutti, di godersi il momento. Sulla scena e fuori dal palco si respira un mood di collaborazione e bellezza, a volte raro.

Una persona felice avrà un corpo felice. Sono stato molto fortunato nella mia vita: ho avuto Maestri con un atteggiamento positivo oltre che competenti ed estremamente professionali. Mettere un danzatore in una condizione di serenità in sala, di scambio con il coreografo e anche, nei limiti di un progetto ovviamente, di libertà, fa sì che tutto funzioni meglio e che lo spettacolo che si porta in scena goda di un’energia diversa che il pubblico certamente percepirà. Ciò che mi interessa è la drammaturgia, il rapporto tra personaggio e musica, la motivazione dietro all’idea che si vuole portare in scena: quella è una struttura di base dentro la quale ci muoviamo liberamente. E l’energia in sala e sul palcoscenico è palpabile e a mio avviso, fa la differenza.

Sembra che questa creazione sia stata, per te, un mezzo attraverso cui tirare le fila di una vita certamente intensa e ben spesa.

Forse alla mia età ho trovato, finalmente, una identità. Rimane l’inquietudine, che è alla base di ogni ricerca, ma ho trovato un linguaggio in cui mi trovo a mio agio. Questa esperienza mi ha riportato indietro nel tempo, alle mie radici, al Teatro alla Scala, al grande balletto. La direzione di un corpo di ballo, però, è lavoro che continuo ad amare molto. Se penso a Firenze, alla Nuova Zelanda o alle esperienze in Uruguay o in Australia non posso che essere grato: ho imparato moltissimo addentrandomi anche in aspetti manageriali che prima non conoscevo. E chissà che un giorno il bagaglio accumulato non possa essere nuovamente messo a disposizione di un teatro, magari proprio nel mio paese. Se penso a un sogno da realizzare c’è proprio questo.

Tu pensi di aver fatto, a livello di carriera, la differenza rispetto a tanti altri tuoi colleghi?

Non so se ho fatto la differenza ma di certo ho avuto coraggio. Ho lasciato la mia casa, la Scala, che è il luogo in cui sono cresciuto e dove ho imparato tutto. Sarei potuto rimanere e fare tante cose sentendomi sempre protetto.

Io invece ho voluto andare nel mondo.

Non ho mai perso la curiosità che mi muoveva quando avevo 11 anni. E nel 2010 quando Makhar Vaziev mi affidò una creazione per il corpo di ballo, ho capito che quello era il mio habitat. In quella occasione si scrisse il primo capitolo della storia che mi ha portato, oggi, qui a Dubai. Non ho mai avuto nostalgia della scena. Per me il passaggio da ballerino a coreografo e poi Direttore è stato naturalissimo. Non facile, perché i momenti di grande difficoltà ci sono stati, soprattutto dopo l’esperienza di Firenze, ma è andata bene così.

Due sembrano le parole chiave che ti conducono nella vita: curiosità e coraggio.

La Guillem dice che bisogna vivere sempre un passo al di sopra della paura.

La paura ti ferma, si temono le conseguenze di un’azione. Ma se agisci in maniera onesta le conseguenze possono essere anche un fallimento ma il fallimento deve essere vissuto come una straordinaria occasione per imparare. Nella mia vita ho fallito molto, ma ogni errore mi ha portato qui dove sono oggi.

Spesso a lezione dico ai ragazzi di cadere, sbagliare perché solo cadendo si riesce a capire dov’è la verità. Se tu non fallisci mai stai sempre un passo indietro per sentirti salvo. Devi andare nel buio, perdere il controllo e poi ritrovarti.

Infine la curiosità: bisogna mettersi sempre in discussione. Non bisogna nutrirsi del successo come un veleno ma come un mezzo per continuare a crescere. Questo è, oggi, il mio approccio alla vita.

Crediti fotografici: Stephen A’Court

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