Fredy Franzutti: “Credo di essere una persona felice”

di Francesco Borelli
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Oggi il Balletto del Sud è una delle compagnie italiane con maggior seguito; dopo tanti anni e ben trentasei produzioni all’attivo qual è il tuo bilancio?

In molti sottolineano i risultati della compagnia e, in effetti, i numeri aumentano e il successo è tangibile. Ma non riesco a percepirlo. Non vedo in ciò che accade oggi un punto d’arrivo, bensì un inizio. Tutto è ancora da costruire e molte città italiane ancora non ci conoscono. Nell’ultimo periodo i social hanno regalato verità al nostro lavoro: FB, you tube, in qualche modo, hanno contribuito a diffondere l’attività della compagnia, ma tutti questi anni sono serviti a dare forma a un lavoro che deve ancora cominciare a esprimersi al meglio.

La critica ha sempre premiato il vostro lavoro e la stessa Vittoria Ottolenghi vi ha definito una delle migliori compagnie italiane. Quali sono i parametri con cui valuti il giudizio dei giornalisti di settore e la reazione del pubblico? Che valore dai agli uni e all’altro?

Critica e pubblico sono componenti ugualmente importanti. Il pubblico è sovrano ma spesso è distratto o valuta sulla base di umori propri e personali. La critica esprime un giudizio che si colloca a metà tra l’artista e il pubblico stesso. L’opinione di un esperto del settore, se costruttiva, e se espressa da persona intelligente e capace, può servire a noi coreografi e artisti a migliorare il nostro lavoro e colmare lacune che, da soli, non avevamo colto.

Quanto è importante la figura del coreografo per il pubblico?

Il coreografo è come l’autore di un libro. Se vai in libreria, cercherai Dan Brown senza pensare che leggerai “Il codice Da Vinci” o “Inferno”. Acquisti l’autore a prescindere da ciò che scrive. Lo stesso vale per noi coreografi. Il pubblico deve venire a vedere Franzutti che un giorno propone “Schiaccianoci” e un altro “Carmen”. È la firma dell’autore che fidelizza il pubblico. Se ami il modo in cui lo scrittore/coreografo scrive, lo leggerai a prescindere.

Parli di autore anziché di coreografo. Perché?

Il coreografo è un autore a tutti gli effetti. La danza è un linguaggio che è utilizzato per raccontare una storia e può essere classico o moderno, indifferentemente. Il linguaggio non è ciò che si dice. Puoi esprimere concetti obsoleti usando l’inglese e al contempo dire cose modernissime usando il latino. Il pubblico e i suoi gusti si riconoscono, oggi, in base al linguaggio scelto e non per i contenuti. E questo costituisce certamente un limite.

Ciò che ti è universalmente riconosciuto è un grande intuito che ti consente di sapere ciò che piacerà al pubblico. Ti ritrovi in questo tipo di affermazione?

Se tale affermazione è vista come un complimento, l’accetto volentieri e mi fa piacere. Ma non è questo l’obiettivo con cui mi approccio al mio lavoro di autore/coreografo. Il pubblico meridionale è estremamente diffidente. Ha visto e conosce poco e se uno spettacolo gli piace o no, lo decide in quel momento. Non c’è alcuna idea pregressa: non importa che ci sia il grande nome in cartellone o che sia in scena la compagnia famosa. Se non piaci, non applaudono. È un pubblico severo che mi ha naturalmente portato a sviluppare una concezione di spettacolo che, innanzitutto, tende a coinvolgere le altre arti e che poi è fatto di grande qualità tecnica e ottimi interpreti.

Come nasce uno spettacolo di Fredy Franzutti?

Parto innanzitutto dal soggetto. Il secondo obiettivo è la responsabilità nei confronti della musica: ci vuole una coerenza data dallo studio e dalla conoscenza. Poi la danza, che deve essere, come ho già sottolineato, di qualità tecnica e interpretativa.

Ciò che contraddistingue il tuo lavoro è una visione totale sullo spettacolo che proponi. Visione fatta di conoscenze profonde e di un bagaglio culturale notevole.

Certamente mi riconoscono studio e cultura. Ma non è una condizione necessaria: esistono geni che a prescindere dalla propria formazione, hanno realizzato veri e propri capolavori. La danza può nascere anche da un istinto, forte e geniale. Personalmente adopero “quest’arma” perché mi è consona e mi appartiene. Ma ogni coreografo ha una firma che si caratterizza per aspetti precisi. Certo è che se ci si avvicina a lavori di tipo culturale senza comprenderli, il risultato non può essere felice.

Com’è nato il Balletto del Sud?

Avevo solo tredici anni e ricordo benissimo che il primo giorno in cui feci una lezione di danza, tornai a casa e montai un balletto con i passi appena appresi. Non ho mai pensato di diventare un danzatore, la mia natura ha sempre voluto esprimersi attraverso la coreografia.

Nel 1994 avevo lavorato in Grecia con alcuni danzatori. Chiamai tre di loro e feci un’audizione per scegliere i migliori allievi delle scuole di danza. Creai un gruppo e montai una coreografia su un testo barocco del ‘600 di Gianbattista Marino. Andammo in scena a marzo. L’operazione fu un successo di pubblico. Quell’estate fu l’ultima da danzatore e, deciso a creare un mio gruppo, nel settembre del ’95 nacque il Balletto del Sud. Il nostro primo balletto fu “Delirica”, una trasposizione in danza dell’opera La Traviata di Verdi.

In ventidue lunghi anni di attività la compagnia hai portato in scena trentasei differenti produzioni. Quali, secondo te, sono le più riuscite?

Quella che in assoluto ha avuto più repliche è “Carmen”. Ma ho iniziato il mio lavoro di coreografo dedicandomi alla rielaborazione dei grandi classici: “Schiaccianoci”, “Romeo e Giulietta”, “La bella addormentata” e “Il lago dei cigni”. E devo dire, con sincera modestia, che sono stato uno dei primi in Italia a pensare a una trascrizione dei grandi balletti con nuove ambientazioni. La stessa Vittoria Ottolenghi sull’Espresso scrisse un articolo intitolato: “Dopo i successi conclamati di Mats Ek e Matthew Bourne anche in Italia abbiamo il primo rielaboratore dei grandi classici”. Oggi non è più una novità.

Come scegli i danzatori della tua compagnia?

Solitamente scelgo danzatori giovani appena usciti dalla scuola (ovviamente mi riferisco delle grandi scuole internazionali). Mi piace poterli far crescere secondo le mie modalità. Inizio a essere contento di loro intorno ai ventiquattro anni quando cominciano a maturare l’esperienza accumulata. Questa è solitamente la formula. Poi devono avere una formazione accademica e quindi un’ottima basa classica. Ci sono però tante eccezioni. Alcuni dei nostri danzatori giungono nel Balletto del Sud già con alle spalle molte esperienze e scelgono la compagnia per la fase matura della loro carriera. Lessi un giorno che Balanchine fece un’audizione per il New York City Ballet. Una giornalista gli chiese: “Maestro, cosa cerca?”. Lui rispose: “Ballerine altissime, con gambe lunghe e una tecnica fortissima, il talento non m’interessa, quello possono averlo tutti.” Ciò significa che la prima cosa che cercava era una cifra estetica non comune: altezza, gambe lunghe e tecnica. Fu un precursore di un linguaggio coreografico ed estetico più adatto ai giorni nostri che non agli anni 40. Non voglio minimamente paragonarmi al genio di Balanchine ma in qualche modo mi ritrovo nelle sue parole. I miei danzatori sono diversi tra loro, vengono da nazioni differenti e seppure accomunati da una tecnica ottima, sono comunque personalità e artisti differenti.

Spesso nelle tue produzioni hai ospitato grandi nomi della danza: da Carla Fracci fino a Luciana Savignano e Lindsay Kemp. La scelta di tali stelle del balletto è stata dettata da quale esigenza?

Di fondo c’è stato il desiderio di soddisfare una mia necessità: lavorare con artisti così grandi ha permesso al coreografo Franzutti, non all’impresario, di arricchire il proprio bagaglio. Grazie a questi incontri ho potuto conoscere la storia della danza, approfondirla, “rubare” suggerimenti e consigli, infine, crescere. Ogni spettacolo che porto in scena è il frutto di anni di esperienza e delle collaborazioni che ho avuto.

Il rapporto con il passato lo trovo necessario per un futuro solido e senza bluf. Questa è la più grande cicatrice della nostra cultura: come fai a guardare avanti se non conosci la storia?

Perché l’Italia, rinomatamente culla dell’opera e del balletto, non favorisce una crescita in tal senso, anzi ostacola ogni tipo d’iniziativa?

Esistono problematiche di base mai risolte. I trentenni attuali sono persone che dispongono di una cultura settoriale, frutto dell’esperienza americana: l’ingegnere conosce l’ingegneria, il medico, la medicina etc. etc. Oltre ciò c’è una considerazione da fare riguardo alla nostra politica, destra e sinistra senza distinzione. Non sempre abbiamo più un’ideologia e un’identità politica che sostiene la danza e il balletto classico soprattutto.

Che cosa può fare Franzutti per migliorare la condizione della danza nel nostro paese?

Gli artisti tutti, danzatori e coreografi, devono lavorare con grandissima coscienza e rigore. Mai autocelebrarsi e pensare che il talento basti a se stesso. Ogni spettacolo, a prescindere che sia di danza classica, moderna, contemporanea o hip hop, deve essere il frutto di un grande lavoro con attenzione quasi ossessiva alla qualità. La nostra responsabilità più grande è quella di offrire al pubblico italiano spettacoli di livello che fungano da veicolo per far conoscere una danza bella e ben fatta. L’arte esiste se c’è qualcuno che può goderne. Quindi dobbiamo educare il pubblico e tentare di portarlo a teatro mostrandogli la bellezza.

Se dovessi definire la tua poetica coreografica, che parole useresti?

Certamente il linguaggio è quello della danza accademica e della tradizione. E non mi riferisco solo all’uso dei codici del balletto classico ma anche all’utilizzo dei temi della classicità per raccontare una storia spesso modernissima. Guardo con diffidenza la ricerca attuale della danza moderna e contemporanea. Credo ci sia un vero e proprio blocco in tal senso. Da trent’anni a questa parte non c’è nulla di nuovo, nessuna innovazione.

Se dovessi dare un titolo all’intervista di oggi?

Non saprei, l’intervista di oggi è stata origine di numerose riflessioni. Penso al grande successo di Carmen al Teatro Carcano di Milano: due repliche e due sold out. Poi però rifletto e mi chiedo per quale motivo ci sia ancora bisogno del grande titolo per portare la gente in teatro. Liberarsi dal narrativo e affidarsi alla sola danza è un qualcosa che appartiene a una società evoluta che ancora non è l’Italia.

Tu oggi ti ritieni una persona felice?

Si, sinceramente credo di esserlo. Spero ancora in un miglioramento del sistema cultura, credo in un tempo migliore e ogni giorno lavoro per ottenerlo. Sono convinto che il pubblico possa trovare nel teatro e nello spettacolo di danza un luogo (fisico e mentale) dove confrontarsi e crescere e che una prima esperienza positiva possa divenire in futuro una bella abitudine.

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