Che dire di questo Gala se non che difficilmente poteva meglio celebrare la grandezza di Carla Fracci?
E nel contempo dimostrarle tutto l’amore che la Scala negli ultimi 20 anni le ha negato, ridandole tutto il valore, l’importanza della sua grande arte? Grazie quindi a Manuel Legris che ha avuto questa idea supportato da Dominique Meyer, e il merito di riportare la Fracci alla Scala, di farla rientrare in sala prove e di restituirle il calore che meritava.
E il Gala Fracci rispecchia proprio questa intenzione: un tributo sincero senza divismi, con tutto l’affetto da parte di chi la conosceva bene, di un corpo di ballo che poco l’ha conosciuta ma molto l’ha apprezzata, e anche di chi un tempo la criticava per la troppa longevità in scena.
La scelta dei 13 brani è stata centrata sui ruoli iconici della Fracci, forse per me talvolta un po’ azzardata negli accostamenti (Chéri dopo Excelsior è un po’ dissonante) ma sempre giusta nel contesto.
Vero è che per certi brani è più difficile vivere estrapolati dal balletto completo e avere presa sul pubblico meno avvezzo ai titoli in questione. Forse questo vale in particolare per La Strada e l’Heure Exquise, quasi dei trailer. Comunque nel contesto globale ha funzionato tutto benissimo proprio perché stiamo parlando di un Gala. Anzi, magari per un pubblico curioso questi brani servono da stimolo ad andare a cercare i titoli meno noti per vederli nella loro totalità.
Sala strapiena, Armani in platea, atmosfera magica da evento unico. Pubblico caloroso, un “brava” alla Fracci a sipario chiuso all’inizio dell’Adagio della Rosa: una voce femminile un po’ agée, commovente, sgorgata dalla galleria come ai tempi delle mie sei “Belle” Fracci Nureyev fine anni ‘70. Mi sono un po’ commossa.
E mi sono commossa molto anche nel vedere quelle foto enormi di Fracci e Murru in Chéri. Massimo Murru ha rimontato il passo a due della camera da letto di Chéri di Roland Petit per Nicola Del Freo, esuberante e delicato, e per Emanuela Montanari, elegantissima Léa, artista meravigliosa con il pregio di una interpretazione e di una presenza scenica unica e che chiude una carriera stupenda. Sembrava veramente di rivedere la Fracci in scena. Lacrime. Inciso: che poi, detto fra noi, non si capisce perché sia costretta a chiudere solo per questioni di età, è meravigliosa e potrebbe dare ancora tantissimo, speriamo tutti che non si fermi qui.
Sono stati tutti bravi, e cito quello che più mi è rimasto negli occhi: le splendide Willi scaligere orgoglio nazionale, l’elevazione dello schiavo di Mattia Semperboni e i fouettés di Camilla Cerulli in Excelsior, la freschezza della Giulietta di Vittoria Valerio con Marco Agostino, il valzer senza tempo della Vedova Allegra di Ronald Hynd (presente in sala) ballato con leggiadria da Marianela Nuñez e Roberto Bolle, valzer spensierato e romantico come il costume un po’ meringa di lei.
Per passare ad un altro valzer tutto diverso, il valzer dei fiori dello Schiaccianoci di Nureyev, articolato, difficilissimo per il corpo di ballo, ballato splendidamente, pieno di conteggi e passaggi impervi in cui Nureyev muove dodici coppie come fuochi d’artificio.
Per chiudere il primo tempo il passo a due di Schiaccianoci: e qui un plauso speciale a Manni e Andrijahsenko davvero perfetti insieme, se posso permettermi una lode in particolare a Nicoletta, che nell’entrée del passo a due, fin dal terribile arabesque iniziale, è stata precisa, pulita, non un’esitazione, ha fatto sembrare “semplice” questo passo a due di una difficoltà mostruosa. Brava. Bene gli assoli altrettanto impervi e la coda. Speriamo ci sia un video.
Nel foyer, all’intervallo, risuonano commenti entusiasti, e curiosità per il secondo tempo.
Si inizia con la Strada, con un insieme che poco ha da invidiare a West Side Story, Caterina Bianchi e Gioacchino Starace brillanti nei ruoli degli sposi che furono di Elettra Morini e Tiziano Mietto. Antonella Albano poi una fragile e trasognata Gelsomina con Garon il Matto, bravi interpreti di un passo a due che ti lascia la voglia di vederla tutta, la Strada.
Musicale e delicato l’assolo del fiore di Martina Arduino ne La Péri coreografia ottocento di grande pregio da accudire con gelosia (l’acconciatura era un po’ di manzoniana memoria ma è parte integrante del modo assolutamente unico che aveva la Fracci di indossare i costumi, facendoli diventare proprie estensioni interpretative).
Vista per la prima volta la Cachucha, da cui ho capito meglio l’origine di certa danza di carattere spagnola insegnata in scuole di pregio. Bella la Bianchi, giusto stile, forse mi aspettavo più “fuego”.
Un ricordo affettuoso per Ann Hutchinson Guest, che recuperò la coreografia di Cachucha per la Fracci e che oggi ci ha lasciato a 103 anni.
È il momento di Alessandra Ferri con l’Heure exquise, forse il pezzo più difficile da presentare estrapolato. Ma l’atmosfera rarefatta e il lirismo di Béjart arrivano in platea e la ballerina agée che ringrazia per l’ultima volta il suo pubblico, dopo essersi messa la pece, è motivo di grande commozione. (e ancora nel mio palco c’era gente che si meravigliava davanti ai piedi unici della Ferri).
E si prosegue con l’Adagio della Rosa con Agnese di Clemente, deliziosa ma ancora forse un po’ inesperta per scalare un adagio così monumentale, poi il pas de deux del sogno di Onegin con Bolle e Nuñez esperti nel ruolo ma con qualche imprevista esitazione, e a chiudere il quarto movimento di Symphony in C di Balanchine (emozionanti le foto della Fracci con Balanchine in una Scala anni 50 in cui il ballo cercava una sua dimensione internazionale). Corpo di ballo con dinamiche velocissime, tutti precisi in un finale entusiasmante.
Grandi applausi per tutti, saluti da lacrime per l’addio di Emanuela Montanari e cala il sipario su un Gala non certo fine a sé stesso che resterà una pietra miliare per quelli che verranno nei prossimi anni e che è stato pensato sia per un pubblico più “allenato”, sia per chi è meno avvezzo al balletto: si capisce chi era Carla Fracci, versatile, intensa, immensa.
Merci monsieur Manuel Legris.
P.S: l’anno prossimo Coppelia di Martinez, per favore.
Foto Erio Piccagliani