Mentre la compagnia inglese dell’English National Ballet si appresta a celebrare il suo settantesimo anniversario con un importante Galà che si terrà il 17 e 18 Gennaio al London Coliseum, non potevamo non intervistare colui il quale è stato l’immagine più celebre della compagnia per ben quattro anni: Giuseppe Picone, étoile internazionale e attualmente stimatissimo Direttore della compagnia di danza del Teatro San Carlo di Napoli.
Immagino che non potrai proprio mancare a questo importante appuntamento a Londra, il settantesimo anniversario di una delle compagnie più importanti in cui hai danzato, vero?
Assolutamente no. Sono già stato invitato al Galà, e andrò con immenso piacere a festeggiare la compagnia che mi ha accolto quando ero appeno diciassettenne, spero solo che non sopraggiungano impegni imprevisti!
Era il 1993 quando il Direttore di allora, Derek Deane, ti volle a tutti i costi e ti diede subito ruoli da solista, non sapendo però che tu fossi così giovane. Cosa accadde?
Derek già mi conosceva dai tempi dei miei studi al Teatro San Carlo, e fu proprio lui, in seguito, a premiarmi quando vinsi il Concorso di Rieti. Dopo aver danzato un anno al Ballet National de Nancy, Derek mi invitò per un’audizione all’ English National Ballet ed entrai in compagnia subito e direttamente nel ruolo di solista a soli 17 anni, ma il Direttore pensava ne avessi 22, 23.
E come venne a sapere la verità?
In realtà, casualmente, perché gli giunsero alle orecchie le lamentele degli altri solisti dell’ENB che furono completamente spiazzati dal mio arrivo. Ed era comprensibile: io ero l’ultimo arrivato e per lo più giovanissimo ed ero già stato nominato solista e loro, che avevano già 28, 29 anni, erano arrivati a ricoprire quel ruolo dopo anni di dura gavetta. In realtà anche gli allievi della scuola della ENB non mi vedevano di buon occhio perché venivo preso sempre ad esempio: avevo l’età degli allievi, ma ero già solista in compagnia.
Ma dopo il primo momento di sorpresa nell’apprendere la tua età, Derek Deane non tornò sui suoi passi, anzi, confermò la fiducia in te tanto da affidarti il ruolo di Romeo nel “Romeo e Giulietta” di Rudolf Nureyev, una grande responsabilità!
Il ruolo di Romeo, versione di Nureyev è la cosa più difficile che mi sia mai capitata di danzare. E tra l’altro, la coreografia era stata creata da Rudy tutta a destra, ed io sono mancino. I maestri ripetitori dell’Opera di Parigi, incaricati di rimontare il balletto, che mi seguivano nella preparazione del ruolo, non mi fecero sconti di nessun genere e pretesero che io, mancino, mantenessi in toto la coreografia originale montata a destra. Ricordo che uscivo distrutto dalla sala prove.
E in quei momenti di dura prova, non hai mai pensato di mollare, di rinunciare?
No, all’English National Ballet, mai. Perché nonostante tutto, gli altri danzatori della compagnia, non si sono mai comportati scorrettamente, sono stati onesti e rispettosi perché riconoscevano in me doti di grande lavoratore. Anzi, mi sono divertito con loro, ho fatto gruppo e questo ha aiutato molto nei momenti di sconforto, cosa che non mi è successa invece a New York, all’American Ballet.
Ecco, raccontaci meglio questa tua esperienza all’ABT.
Le invidie e le gelosie erano terribili, e le cattiverie all’ordine del giorno. Ho sofferto immensamente, sono persino finito in ospedale e ho pensato seriamente di smettere.
Ma fortunatamente, non lo hai fatto. Hai ritrovato in te la forza e la determinazione per andare avanti. Tornando per un attimo alla tua esperienza all’ENB, qual è il ricordo più caro che hai conservato di quei quattro anni?
Sicuramente il momento in cui ho danzato il ruolo di Albrecht, in “Giselle”. Ero davvero giovanissimo, 18 anni, ma già avevo capito tantissimo di quel personaggio, sentivo il dramma che viveva, il grande rimorso per avere provocato la morte di una donna innocente e romantica come Giselle. Ho amato da subito soprattutto la scena all’inizio del II Atto, quella in cui Albrecht si reca al cimitero per portare i fiori sulla tomba di Giselle; ecco, lì c’è tutto il dramma del balletto. Albrecht cammina solamente, avvolto in quel lungo mantello, ma in quei pochi passi c’è una tale tensione, malinconia e un tale struggimento che, per me, rappresenta il momento cruciale dell’intero balletto, quello in cui il pubblico deve sentire l’emozione, la commozione.
Sono completamente d’accordo, ma questo succede solamente quando ad interpretare Albrecht in quel momento, c’è un grande artista, come te.
Devo ammettere che Derek Deane, concluse le prove in teatro, mi fece grandi complimenti e sottolineò proprio quanta emozione avesse provato in quella scena.
Ritengo però che la capacità di provocare quel tipo di emozione, appartenga solo ai grandi perché è un talento che non si insegna. Sei d’accordo?
Completamente d’accordo. Ritengo che attualmente nella danza prevalga un pò troppo la ricerca spasmodica dell’eccesso del virtuosismo, ma la danza è un’arte. L’artista deve sapere smuovere nel profondo l’animo di chi guarda. E questo non si insegna.
E secondo te, nel panorama attuale, quali danzatori possiedono questa capacità?
Per fortuna, vedo tanta qualità nella nuova generazione: un esempio su tutti è il nostro Jacopo Tissi, che ho voluto come ospite insieme a Olga Smirnova per il Concerto di Capodanno che verrà trasmesso da RAI UNO. Ritengo che Jacopo rappresenti in pieno il mio ideale di danzatore: tecnica mirabile unita ad una capacità espressiva eccezionale. Quando lo vedo alla sbarra, già da un semplice suo port de bras mi accorgo che lui, al di là della perfezione tecnica, possiede quel qualcosa in più, la sensibilità della sua anima di artista traspare dai suoi occhi.
Qualche danzatrice che secondo te possiede quel qualcosa in più che la distingue da tutte le altre?
Marianela Nunez, Alina Cojocaru, e tra le nuove leve Yasmine Naghdi, Francesca Hayward Maria Khoreva. Ma non possiamo non citare Vadim Muntagirov (detto Va-Dream) che ho avuto ospite qui al San Carlo: davvero spettacolare.
Ci ha lasciato da poco, la grande Alicia Alonso, che tu hai conosciuto personalmente quando hai ballato a Cuba. Cosa ricordi in particolare? Cosa ti colpì di lei maggiormente?
E’ stato per me un privilegio poter danzare all’Havana e conoscere la grande Alicia. Il mio primo incontro con lei avvenne alla Festa di Apertura della Stagione teatrale, serata in cui venivano invitati solo grandi ospiti e io ebbi l’onore di esserci. Improvvisamente vidi tutto il teatro alzarsi in piedi ed applaudire, una vera ovazione: era entrata lei a braccetto di Fidel Castro, che emozione.
Era una donna di poche parole, ma di una grande generosità, una divina. A Cuba danzai in “Giselle” e “Spettro della Rosa”, lei non vedeva già più, ma, alla fine della mia esibizione venne da me e disse: “ Non ho potuto vederti ballare, ma ho potuto sentire il grande calore del pubblico”.
Parliamo del tuo incarico attuale. Tu che hai potuto fare esperienza negli anni, in tante grandi compagnie, ora che ne dirigi una tua, qual è il tratto peculiare della compagnia del Teatro San Carlo, in cosa si distingue?
C’è una gran voglia di fare, una volontà enorme di riscatto che è la conseguenza della situazione precedente caratterizzata da grandi avversità interne e che avevano demotivato, svuotato il morale di questi ballerini, e avevano abbassato la qualità. Devo ammettere che in tre anni e mezzo di mia Direzione, nonostante io continui ad affrontare quotidianamente problematiche importanti legate all’ incertezza e all’instabilità, posso però dire, che il peggio è passato.
Quindi hai fatto un lavoro immenso in pochissimi anni.
Adesso posso affermare che la Compagnia c’è, è presente e ha qualità. Tanto da essere riuscito a portarli in tournées internazionali a Granada, Buenos Aires, Singapore, Pechino… e questo riconoscimento di qualità si è visto pochi mesi dopo il mio arrivo. Un manager spagnolo presente tra il pubblico del Teatro San Carlo, dopo aver visto la mia Cenerentola, ci ha subito invitato a Granada.
Che situazione hai trovato al tuo arrivo?
Oltre ad un corpo di ballo demotivato, come ho già detto, ciò che mi colpì fu la rassegnazione. Ormai per riempire il teatro e fare cassa, si chiamava solo e sempre Svetlana Zakharova, ma nel mondo c’è tanto di più, e i danzatori del San Carlo comunque meritavano di essere rivalutati, era giusto dare loro lo spazio che meritavano. In pochi anni ho chiamato tantissimi ospiti eccezionali, ma ho anche restituito ai miei danzatori il diritto a riprendersi il loro meritato spazio, e il pubblico è impazzito.
Ripensando a tutta la tua vita, sono state talmente tante e intense le esperienze vissute, che mi viene da chiederti: hai ancora un progetto, un sogno che custodisci nel cuore e che un giorno vorresti si realizzasse?
Certo che ce l’ho. Il mio progetto del cuore è creare la mia versione di “Romeo e Giulietta”. In questi anni ho messo in scena “Cenerentola”, “Schiaccianoci”, “Bolero”, “Tchaikowsky Classique”, ma sono anni che penso a “Romeo e Giulietta”. Ci tengo talmente tanto che lo metterò in scena solo quando tutto potrà essere perfetto: e non parlo solo della coreografia, ma dei costumi, delle scenografie, sarà tutto come voglio io, senza compromessi. Ci metterò l’anima.
Hai già dentro di te una traccia coreografica?
Posso dire che questo balletto ha una gestazione che dura già da 15 anni. Ci penso da quando ero a Vienna. Un giorno iniziai a montare la scena del balcone, così di istinto, e sono certo che farà parte del mio “Romeo e Giulietta”, anche se andrà ovviamente rivista, perfezionata dall’esperienza che ho maturato negli anni successivi. Ho già scritto anche il primo atto, so come vorrò le scenografie: vedo tutto davanti a me, soprattutto so che l’incontro tra Romeo e Giulietta avverrà tra le colonne del palazzo e in quel momento tutto si fermerà.
Non vediamo l’ora. Non posso concludere questa intervista senza chiederti cosa pensi della attuale situazione culturale italiana. Che futuro vedi per la danza nel nostro Paese?
In generale, in tutto il mondo la danza soffre, ma in Italia molto di più. All’estero, nonostante ci sia comunque la crisi, si lavora. Noi, che abbiamo nel sangue la danza, siamo costretti a chiudere le compagnie: penso a Firenze, a Verona… Bisognerebbe essere tutti più coesi in queste battaglie, perché rappresentano i nostri valori e i diritti di tutti noi, l’eredità culturale di un intero paese.
Se andremo avanti così, perderemo tutto.
Tutto questo è purtroppo verissimo. Personalmente ritengo però che, in un panorama così difficoltoso, se avremo la fortuna di avere più personalità come quelle di Giuseppe Picone, un vero artista che ama immensamente il suo lavoro e che con assoluta abnegazione è riuscito a risollevare le sorti di una paziente ( la Compagnia del Teatro San Carlo), che già si pensava destinata a morte, la cultura di paese si salverà e rinascerà rinvigorita. Bisogna solo crederci.