Oggi voglio parlarvi di una virtù molto importante sia nella vita che nella danza, qualcosa che forse oggi ha perso un po’ del suo smalto, ma verso cui personalmente anelo ogni giorno, in ogni gesto quotidiano: l’onestà. Al di là di ciò che per ognuno di noi questo concetto significhi nell’esistenza, l’onestà di un artista è qualcosa da non prendere troppo alla leggera, poiché da questo dipende la sua significanza scenica e la potenza del suo messaggio, qualunque sia il linguaggio prescelto per diffonderlo: pittura, scultura, poesia, danza, recitazione, canto o qualsiasi altra emanazione creativa attraverso il corpo. Ma come potremmo esprimere a parole questo concetto? Cosa vuol dire essere degli artisti, in questo caso danzatori, onesti?
La parola trova la sua radice dal latino honos -oris, che vuol dire onore, inteso in relazione a colui che si considera alieno da tutte quelle parole o azioni che siano contrarie al dovere e all’onore. Ma nei confronti di chi? Io credo nei confronti di sé stesso, della propria identità artistica, e onore nei confronti di una certa purezza fanciullesca nel concepire la danza in modo semplice, ma non superficiale.
Penso all’artista onesto come a qualcuno che si pone al di sopra del gusto della massa, delle mode, delle richieste del mercato, persino al di sopra di ciò che piace al pubblico. Il danzatore o il coreografo non decidono di compiere lo sforzo creativo per accontentare lo spettatore, o per compiacerlo, ma per condividere con esso una propria visione sul mondo o su un suo aspetto. Comporre o interpretare una danza solo per piacere agli altri trovo sia una trappola mortale, poiché non è possibile appagare i gusti e le esigenze di tutti, e nell’inseguire questa chimera si rischia di perdere sé stessi e il proprio sentire profondo, che così viene aggiogato dall’ego e dalle sue pretese di appagamento attraverso il consenso del pubblico.
Trovo che questo non sia un atteggiamento onesto.
In verità è molto difficile parlare di onestà riguardo al mestiere che facciamo, dal momento che il teatro, in fin dei conti, è fondamentalmente una finzione. Ma forse si può essere onesti fingendo, perdonate questo ossimoro, solo quando ci si concede per ciò che si è e non per come vorremmo essere o come gli altri vorrebbero che fossimo. Siano essi pubblico, coreografi, programmatori, critici, allievi o insegnanti.
Fin da quando ho cominciato la mia vita con la danza, una delle frasi che ritornava molto spesso, pronunciata normalmente con grande enfasi e sospiri degni di un poeta maledetto, è che si danza perché solo sul palcoscenico ci si sente veramente sé stessi, facendo forse riferimento ad una sensazione di estrema libertà e completezza che io conosco bene e che fa sentire potenti e meravigliosi quando si è in scena. Mi chiedevo sempre come ci si possa davvero sentire sé stessi in una situazione che potremmo considerare l’allegoria stessa della finzione. Questo conflitto drammatico secondo me rappresenta il nocciolo di una certa difficoltà a trovare una stabilità interiore, molto diffusa tra chi fa il mestiere dello spettacolo: essere sé stessi nella finzione e sentirsi a volte fuori posto nell’ordinario quotidiano.
Cercare di mantenere alto il livello di onestà è molto importante per mitigare gli effetti di questo dualismo, sia come danzatori, che come coreografi ma soprattutto come insegnanti di danza, uno dei mestieri del movimento in cui è maggiormente richiesto un profondo equilibrio tra corpo, mente e spirito.
Negli anni ho imparato a mie spese cosa vuol dire non essere onesti nel lavoro, ogni volta che ho accettato di insegnare in situazioni per cui mi mancavano le competenze, per esempio, e durante la lezione mi sentivo annaspare davanti ad allievi che evidentemente perdevano interesse per ciò che avevo da dire loro, perché non era chiaro neanche a me dove volessi andare. Non mi sono sentita onesta ogni volta che ho accettato una paga troppo bassa per il lavoro svolto, oppure ho continuato a lavorare anche se venivo pagata sempre in ritardo, il che sminuisce il valore della mia professionalità e l’ autostima, gettando pesanti ombre sul mio entusiasmo. Non sono stata onesta con me stessa neanche quando, per accontentare questo o quel direttore di formazione, ho modificato il mio modo di insegnare e la relazione che avrei voluto costruire con gli allievi, per cercare di diventare quello che mi veniva chiesto di essere. Oppure quando ho accettato di insegnare in strutture verso cui non nutrivo alcun interesse, solo perché avevo bisogno di guadagnare, sentendomi un pesce fuor d’acqua per tutto il tempo, in condizioni che minavano la qualità del mio lavoro.
Ho deciso quindi di fare dell’onestà un mio personale credo, poiché nelle esperienze in cui questa qualità è mancata nel mio comportamento, ho provato solo sofferenza e insofferenza. Non è una scelta facile, poiché lavorare con onestà e coerenza comporta anche dover rinunciare a qualcosa, ma per ogni possibilità a cui si rinuncia per tenere fede a questo genere di obiettivi, nuove porte si aprono, sempre più vicine all’idea che abbiamo di noi stessi, sempre più conformi a ciò che intimamente ci sentiamo di essere, a dispetto di tutto ciò che ci ruota attorno e di tutto ciò che gli altri ci dicono. Si tratta di una conquista che ci consente di lavorare e mantenere allo stesso tempo i piedi per terra, in modo più semplice e rassicurante.
Forse sul palcoscenico potrei sentirmi veramente me stessa, ma esiste anche un’altra me stessa altrettanto vera fuori dall’ambiente lavorativo, ugualmente appagata e aperta verso le esperienze della vita.