Da oltre vent’anni è uno dei tasselli cardinali del repertorio del San Francisco Ballet.
La versione del Lago dei cigni firmata da Helgi Tomasson, dapprima nell’edizione del 1988 e successivamente in quella del 2009 con nuove scenografie, è infatti un fiore all’occhiello per la compagnia della Bay Area. Già nel 1940, propio con il SF Ballet, William Christensen presenta la prima intera produzione americana del balletto di cui interprete del principe è il fratello, Lew Christensen, mentre Jacqueline Martin è Odette e Janet Reed è Odile.
Nell’intervista pubblicata online sul sito della compagnia, l’ex direttore dichiara il suo bisogno di mostrare che il cigno, in realtà, è una persona reale. Per tale ragione già nel prologo la giovane principessa Odette incontra il malvagio Von Rothbart, qui Nathaniel Remez, che con un incantesimo la trasforma in un cigno.
Ad interpretare l’iconico doppio ruolo è Nikisha Fogo. Al suo debutto, la principal dancer interpreta un Odette tecnicamente nitida con solidi equilibri, morbidissimi cambré en arrière e port de bras incisivi ma mai debordanti: di converso, la sua Odile con disinvoltura e sicurezza affronta le insidie tecniche e i virtuosismi della coda del pas de deux del terzo atto. Al suo fianco Aaron Robison: un Principe Sigfrido assai carismatico e che con elegante virilità sfoggia giri perfettamente in asse e salti di notevole elevazione.
Proprio nella partnership tra Nikisha Fogo-Odette e Aaron Robinson-Siegfried ravvisiamo con maggiore incisività i lineamenti di una relazione che non è solamente sentimentale – amorosa.
Dal primo incontro, dove la fragilità si palesa con le braccia che come ali avvolgono in opposizione la testa e il petto (port des bras del cigno) e la fuga ha il tremore di pas de bourrée suivi in punta senza una direzione precisa, fino al pas de deux successivo alle danze ammirabili per sincronia e precisione dei ventiquattro cigni bianchi. Siegfried apre le braccia di Odette che si solleva per eseguire giri lenti con morbidezza e leggerezza mantenendo un controllo estremo di ogni posizione. Dopo un incrocio di sguardi, la Fogo esegue un développé en avant che si scioglie con un cambré en arrière tra le braccia di lui mostrando fiducia totale nel partner.
Rilevante è il battus sur le cou de pied della promenade in equilibrio seguita dalle controllatissime pirouettes e dalla posa finale in arabesque penché con la testa in linea con il braccio diretto a terra. È proprio questo tremolio del piede a suggerire una componente erotica, solitamente individuabile più chiaramente nel cigno nero, anche nel primo passo a due che in realtà Lev Ivanov compone come un pas de deux à trois con l’amico del Principe poiché il primo partner della Legnani (a sua volta prima interprete del cigno nella versione di Marius Petipa e Ivanov del 1895) è l’anziano Pavel Gerdt, non più in grado di sostenere la ballerina.
È interessante rammentare che molti pas de deux, tra cui quelli creati per i balletti del XIX secolo, citano sequenze di movimento prossime alle illustrazioni dei libri erotici e nonostante affievoliscano un’espressione di possesso, suggeriscono comunque una visione della ballerina come oggetto di desiderio condiviso.
Questo intricato gioco di avvicinamenti e inseguimenti, sguardi fugaci e sfioramenti precari si dispiega in prossimità di un lago scuro e austero per l’essenzialità e la semplicità degli elementi scenici scelti da Jonathan Fensom, e per i quali si rifà agli elementi architettonici e decorativi del municipio e del War Memorial Opera House di San Francisco, e al Louvre di Parigi.
Fensom rivitalizza l’apparato scenografico di una coreografia che attinge comunque all’eredità classica del balletto, optando per una barriera in muratura che presenta un unico cancello centrale dal quale entrano le coppie del valzer del primo atto, i danzatori del pas de trois eseguito senza alcuna sbavatura, i contadini e poi i bambini impegnati in una breve danza che ricorda la marcia dello Schiaccianoci. Mentre il terzo atto rivela un’architettura elegante e astratta costituita da due sinuose scalinate dalle quali scendono tutti gli interpreti delle danze di carattere, da menzionare quella russa per intensità e rilevanza d’esecuzione, e che lasciano intravedere anche una traccia scenografica di quel primo incontro in riva al lago: ovvero, la luna.
È proprio l’oggetto celeste più vicino alla terra che dal secondo atto, dietro a una grande roccia che rievoca l’inquietante presenza di Von Rothbart, si impone alla vista degli spettatori illuminando il palcoscenico con la sua luce o proiettandovi l’ombra della sua assenza. Questo luccichio che nella versione del 1988 è sul lago del fondale e che ora, dal 2009, riflette sul palcoscenico insidiosamente scivoloso sotto quella necessaria verticalità dei corpi, connota un Lago dei cigni lunatico.
Severità ed eleganza, seduzione ed innocenza, inganno e verità, perdizioni e ritrovamenti, angolosità e morbidezze, classiche citazioni e moderne soluzioni non giustificano l’attributo che non denuncia estrosità o incostanza nel dispiegarsi del balletto, piuttosto svela la sua subordinazione all’influenza della luna. La stessa luna che nei versi dei poeti comunica spesso una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo per il quale i nostri protagonisti muoiono suicidi e il pubblico presente appare in estasi contemplativa, completamente assoggettato all’incantazione del balletto.
Crediti fotografici: © Lindsay Thomas