Mere Mortals di Aszure Barton è il titolo inaugurale della prima stagione del San Francisco Ballet firmata da Tamara Rojo. L’opera di danza, che è anche la prima commissione a serata intera della compagnia per una coreografa, esplora i parallelismi tra il mito di Pandora, con la sua fatale curiosità, e la società contemporanea, le conseguenze involontarie e i dilemmi etici del rapido avanzamento dell’intelligenza artificiale, l’adattamento dell’umanità a tali novità e la sua capacità di tracciare percorsi inusuali da percorrere.
Il mito è un racconto fuori dal tempo, non è mai collocato in un certo momento. Ciò lo sgancia da una necessità, spesso un’ansia, di attualizzazione a cui viene sottoposto per la facile tentazione che ci induce a individuare un’allegoria del rapporto tra noi e il mondo. Ma con i miti “non bisogna aver fretta” – scrive Italo Calvino a proposito della Leggerezza in Lezioni Americane – “è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori.”
L’operazione condotta dall’intero team artistico è densa e pregna di contenuti, dettagli e citazioni, a volte occulte a volte inconsce, da indagare e sondare e che travalicano, forse, la letteralità tutelata dallo scrittore italiano ma che designano, comunque, nell’atemporalità del mito, una circonferenza nella quale è possibile iscrivere e riconoscere una traiettoria.
Il percorso alterna soli, assiemi, emersioni del singolo dal gruppo. La linea drammaturgica del mito non determina l’ordine d’entrata dei protagonisti che in questo lavoro sono, piuttosto, impulsi e vettori d’informazioni.
Dopo l’alzata del sipario, davanti a schermi LED mobili, c’è un solo danzatore: la speranza. Assieme all’ambivalenza dell’integrazione di musica orchestrale dal vivo e strumenti elettronici nell’ambiente sonoro prodotto da Sam Shepherd, alias Floating Points, impegnato nella sua prima composizione per la danza, il ballerino, una presenza constante in tutta l’opera, con brio e velocità traccia guizzanti linee di forza e prepotente stimolo. Una particella, come lo definisce la drammaturga Carmen Kovacs, ma anche una forza della natura il cui potere ne impedisce la dissoluzione e l’aggregazione al gruppo di 43 danzatori che dal profondo buio del palcoscenico avanzano occupando tutto lo spazio performativo.
Il secondo personaggio è Prometeo che qui reprime ed esprime anche alcune delle qualità di Zeus. Il Titano astuto che brinda con gli dei e prospera nel caos manipola e orienta gli spostamenti del gruppo. Sinuosità, sensualità e plasticità contraddistinguono la danza di Pandora il cui sentire, pensiero e verità, nel mito adombrati, qui vengono esplicitati da un monologo che la introduce con voce a tratti monologante e dialogante. “Coming to life” – l’inizio della sua presentazione – Pandora ostenta con discrezione una parziale padronanza fisica e sensoriale di cui si impadronisce completamente e progressivamente attraverso un movimento strisciato, fluido quasi invertebrato, volubile e audace perchè rivelatore di nuove mobilità fisiche e caratteriali. Una curiosità incontrollata smuove anche Epimeteo che qui agisce soprattutto nei limiti della relazione fraterna che allude a un potenziale conflitto familiare. Con fiuto e intuito, il fratello di Prometeo coglie nuove eccitanti potenzialità noncurante delle tendenze propugnate dal gruppo istituzionalizzato ma anche affannato e scompigliato.
I suoi membri, che indossano costumi scuri somiglianti ai volumi e ai tagli delle divise dei Samurai, eseguono all’unisono o a canone gesti e movimenti di differente ampiezza. La costumista, Michelle Jank, asseconda ulteriormente la strategia della fungibilità della massa già evocata dalla coreografa che sottopone tutti a una copertura privilegiata, rendendo l’uno sosia dell’altro attraverso un vertiginoso scambio delle parti all’interno di un’ibrido ammasso dilagante. Si impone per incisività ed efficacia l’immagine di un corpo collettivo rotondo che esegue movimenti modulati. Sembra l’ombelico di un mondo alla deriva, il punto di coagulo di tutti gli umori e di tutti i destini, ma anche un’ordinata integrazione di tutti gli spostati e di tutti gli spostamenti, babele e bordello, magma orgiastico che fa da contrappunto a quello sugli schermi.
Gli elementi naturali e i fenomeni atmosferici sono i temi dei video e delle immagini generate dall’Intelligenza artificiale e dagli effetti pratici analogici a cura dello studio creativo di Barcellona, Hamill Industries, che si ispira a paralleli mitici con la creazione della bomba atomica. La nostra assuefazione a immagini prefabbricate e l’integrazione con gli altri elementi scenici, che è sempre difficile concepire definitivamente e distintamente, a tratti appanna la necessità interna dell’immagini come forme, come forza d’imporsi all’attenzione e ricchezza di significati possibili. Nonostante stabiliscano collegamenti con emittenti terreni, le immagini assumono rispetto a ciascuno una sorta di trascendenza che si esprime sempre in termini antropomorfi giacché la nostra immaginazione difficilmente può raffigurarsi altrimenti. La terra che si impasta con e come mani, i fusti d’alberi che si intrecciano come braccia stimolano nuovi miti personali la cui possibilità dipende dalla combinazione di frammenti di memoria visiva, limitate all’esperienze dirette di ciascuno, con la famigliarità di queste immagini in accostamenti suggestivi, per alcuni inattesi.
Inaspettato è anche il meraviglioso pas de deux che si dispiega nella penombra del crepuscolo degli dei e dell’inclemenza della natura. In un fervido gioco di allusioni, ammiccamenti, invasioni tattili e palpamenti sensuali, Pandora ed Epimeteo esplorano e si esplorano fino a riconoscersi e conoscersi l’uno l’altra. L’intima atmosfera viene alterata dall’arrivo dei danzatori sempre tutti uguali, prima con una muta nera e poi con un’altra dorata che lascia intravedere le linee affusolate di questi umanoidi che di nuovo si ammucchiano in un punto di depressione ciclonica del mondo verso cui cospirano una molteplicità di causali convergenti. Un’accozzaglia solo tendenzialmente umana perché sembra di trovarsi di fronte a un campionario di particelle in moto.
Di questa complessità di operazioni più o meno appariscenti ma tutte nobilitate dal più alto rigore esecutivo e quindi anche professionale dei danzatori, la coreografa segmenta e interseca tangenti e coordinate, con acribia geometrizza e con freddezza alterna l’estetica contemplativa del singolo e quella iper-motoria del gruppo. L’esito ci suggerisce un procedere della Barton a forza d’aggiustamenti pazienti e meticolosi: e come se infinite relazioni passate, presenti, future, reali o possibili esigano che tutto sia esattamente ubicato nel tempo e nello spazio brulicante di vite, di storie, di moltitudini il cui transitare è ordinato ma privo di una precisa destinazione.
L’effetto, quindi, è al contempo di precisione e vaghezza dove l’aggettivo vago, solo nella lingua italiana, porta in sè un’idea di movimento e mutevolezza che si associa all’incerto, all’indefinito quanto alla piacevolezza, all’attrazione e perfino alla grazia. Si potrebbe parlare di una gravità senza peso nella cui filigrana di razionalità geometrica e groviglio di esistenze umane le tracce si imprimono appena e l’impressione è di grande leggerezza. D’altra parte, è questa leggerezza simbolica, almeno, se non quantificata, di neuroni impulsivi, neutrini vaganti, particelle collidenti (quali sarebbero potuti essere potenzialmente quelli ominidi neri e dorati) a reggere e governare il mondo.
E in ambito culturale già in Lucrezio e poi Ovidio, per cui il mondo è fatto rispettivamente di atomi inalterabili e qualità di movimento che come per la Barton descrivono la postura e la personalità di ogni cosa, pianta, animale e persona, la leggerezza è un modo di vedere il mondo ma qui anche una reazione al peso di vivere. I soldati samurai deprimono e sovraccaricano, gli ominidi essenzializzano e scarnificano; gli uni e gli altri indugiano sull’interazione dei gesti automatizzati dall’abitudine e si impegnano in sporadici e agili sollevamenti che rivelano la leggerezza in nuce nella concretezza del mondo che spesso si confonde con la sua vitalità.
Lungo la tangente della rivisitazione con relativi deformazioni, condensazioni, rimescolamenti imprevedibili e imbarbarimenti, sul palcoscenico del War Memorial Opera House cosa resta del mito ispiratore? Nella compresenza di suoni, movimenti, colori, immagini qualcuno potrebbe obiettare l’allontanamento dell’opera dal self della coreografa. Il punto è questo: quell’unicum, in realtà, è già una combinatoria d’esperienze di letture, informazioni e immaginazioni dei componenti del suo team creativo proprio come il mito che trascende ogni singola individualità paternalistica. Ciò vuole dire anche riconoscere facoltà di parola all’albero, alla terra, all’acqua, al magma non ottundendone ma esaltandone le differenze. E poi, ancora, il mito ci consente di porre all’oggi delle domande che altrimenti non riusciremmo a porci: quelli schermi così ingombranti e insistenti squarciano scenari di natura offesa, di un globo di agonizzante bellezza. Noi, comuni mortali, come possiamo sperare di salvare e salvarci in ciò che è più fragile?
Quest’opera di danza è una professione di fede nella persistenza di ciò che più sembra destinato a perire, la vita, la speranza, e nei valori morali ed etici tanto destabilizzati dall’evoluzione digitale. La struttura cumulativa di Mere Mortals rivela il senso dell’oggi che è fatto di accumulazione del passato e di vertigine del vuoto, lo stesso del palcoscenico a conclusione della danza, e di tutto ciò che resta escluso. Ogni spettatore, sugli schermi della sua mente, è chiamato a vedere le immagini che la sua immaginazione visiva riesce a estrarre da questa danza plurima, congetturale e incompiuta.
Crediti: @San Francisco Ballet, photo by Lindsey Rallo