In viaggio verso l’India con il Kuthu Nagyar

di Lia Courrier
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É stato un meraviglioso sogno quello vissuto, lo scorso 7 Ottobre, al CRT di Milano, un'esperienza totale nella quale teatro, danza, storia, spiritualità e musica si sono fuse per condurre il pubblico dentro ai magici racconti custoditi nell'epica induista. Al cospetto di una simile rappresentazione ci si rende subito conto di trovarsi di fronte ad un mistero, all'origine del mondo, a qualcosa di ancestrale, che comunque risuona da qualche parte anche nel nostro essere di umani occidentali, perché l'universalità di questa teatralizzazione ci riporta alla nascita stessa del teatro e della nostra esigenza di comunicare attraverso di esso, ma anche ci riconduce al significato più profondo del ruolo dell'arte e dell'artista nella società.

Il Nangyar Kuthu, così si chiama questa arte antica ben nove secoli, prevede l'utilizzo di gesti estremamente codificati per raccontare le gesta di eroi, divinità e creature demoniache raccontate nei poemi epici induisti. Gesti che vengono analizzati e scomposti fino al più piccolo dettaglio, per poi essere ricomposti in una forma che non è semplicemente un bel movimento, ma una vera e propria trasposizione nel corpo di parole, aggettivi, verbi, avverbi, emozioni, gioie e dolori contenuti nelle opere letterarie che si è scelto di rappresentare. Questo processo creativo di smembramento e assemblaggio del gesto, ha anche l'obiettivo di far svanire ogni componente egoica dell'artista, per lasciare il posto ad un gesto che abbia la potenza universale di un archetipo, che possa parlare a tutti, arrivando in modo chiaro e diretto al cuore di coloro che assistono alla rappresentazione. Si tratta di una comunicazione da corpo a corpo.

La performance comincia in penombra: la scena è spoglia, con pochi elementi, ma che già racconta di mondi a noi lontani e profumati d'incenso. Dopo quello che mi è sembrato un lunghissimo silenzio uno dei musicisti entra in scena, fasciato nei vestiti tradizionali, e si dirige verso il proscenio per accendere le tre fiammelle della lampada ad olio, poggiata su un tavolino, che negli altari domestici e nei templi attestano la presenza divina. Si siede dietro al mizhavu, il tamburo ricavato da un grande vaso di terracotta con una pelle a chiuderne l'apertura superiore, e comincia a suonare a mani nude una specie di richiamo, che parte lento per diventare sempre più incalzante e vibrante. Poi entrano gli altri musicisti ed una cantante che è anche suonatrice di Talam, le piccole campanelle di rame. A quel punto compare lei, la danzatrice, che in quel momento non è più Kapila Venu, una delle più importanti esponenti di questa forma d'arte, ma una creatura magica, incarnazione dei personaggi, meravigliosa e terrorizzante, eterea e terrena, maschio e femmina, Shiva e Shakti, umana e animale. Un costume estremamente ricco ed elaborato la avvolge, mentre un'acconciatura dai lunghi capelli neri, sormontata da un copricapo con ogni tipo di paramento luccicante le incornicia il viso soave, truccato per mettere evidenza gli occhi e le sopracciglia. Il racconto di questa prima sera è quello delle prime quattro incarnazioni di Visnu come animale: pesciolino, tartaruga, cinghiale e leone, ed il contesto in cui queste incarnazioni hanno vegliato, ucciso, liberato e interagito con gli altri personaggi della storia partecipando attivamente alle sorti del mondo intero e dell'umanità.

La danzatrice comincia a muoversi da seduta, su di uno sgabello che utilizzerà varie volte per eseguire le sue trasmutazioni da un personaggio all'altro. Gli occhi danzano e parlano, sembrano enormi e infuocati. Tutto il viso parla e danza in un modo così ipnotico e comunicativo che dopo qualche minuto ho la sensazione di essere straordinariamente vicina a lei cogliendo ogni minimo dettaglio del suo racconto. Con l'incanto della grazia e della precisione muove le mani nei mudra, e la danza si fa sempre più intensa e complessa, mentre la bravissima Kapila Venu incarna in successione tutti i personaggi della storia senza mai perdere il filo della narrazione. La musica e la danza si fondono in un unico linguaggio che è qualcosa di più profondo che la semplice somma degli elementi: vivono una sorta di simbiosi nella quale si esaltano a vicenda sostenendo lo svolgersi incalzante del racconto. Quando il racconto si conclude io sono totalmente rapita e quasi non vorrei applaudire per non sciupare l'atmosfera e l'energia che si è creata in sala, o forse perché non voglio più tornare da questo viaggio. Ma alla fine si applaude, forte e a lungo.

Peccato per chi non ha potuto assistere a questo evento straordinario, rimasto in cartellone per soli due giorni. Un'esperienza preziosa e rara, sebbene in platea ci fosse qualcuno che ad un certo punto ha acceso il cellulare per fare qualche foto, non comprendendo la grandezza e la sacralità di ciò che stava accadendo in scena. Ma del resto, in una città che preferisce avere negozi di culto e ristoranti al posto di cinema e teatri non si può certo pretendere di avere un pubblico che riesca a rimanere presente e attento per un paio d'ore senza mettere le mani al cellulare per uno scatto da condividere sui social.

Per gli appassionati di arte orientale, da non perdere il prossimo appuntamento, sempre al CRT, con il teatro Noh di Udaka Michishige, dal 14 al 16 di Ottobre. Salutiamo con grande gioia questa stagione del Crt che apre in modo così ampio lo sguardo sulla creazione teatrale mondiale, una vera boccata d'ossigeno ed un cartellone da tenere sempre d'occhio.

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