Intervista a Gianluca Schiavoni: “lo spettaccolo più bello? Devo ancora crearlo”

di Francesco Borelli
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Gianluca, come spesso capita nella vita di un danzatore, sei passato dall’essere un semplice ballerino al lavoro del coreografo. In molti casi un’evoluzione naturale, in altri una scelta. In quale categoria senti di rientrare?

Per me è stato fondamentale l’incontro con Godani,  danzatore di Forsythe. Venne in Scala per creare “Contropotere” un balletto di ovvia matrice contemporanea. Per la prima volta venni in contatto con uno stile a mio avviso unico. Non si trattava solo di una differente qualità di movimento ma di un modo diverso di seguire il proprio istinto e percepire la musica. In quell’occasione si accese qualcosa. Avevo trentacinque anni.

Dentro di te serbavi il desiderio di diventare un coreografo?

 In realtà no. Per me il coreografo rappresentava una figura quasi distante dal mio mondo. Amavo il teatro, la musica e la recitazione oltre la danza. Girai anche un film che ebbe riconoscimenti importanti. Insomma, ero molto focalizzato su me stesso e sul mio essere artista. L’incontro con Godani mi fece capire che il ruolo del danzatore, forse, mi stava stretto. E che la danza contemporanea offriva la possibilità di approcciarsi in maniera diversa al movimento, alla musica e al lavoro con gli altri.
Non ci fu nulla di razionale in questo mio “passare dall’altra parte”. Tutto iniziò..senza retro pensieri.

Quale fu la prima occasione ufficiale in cui ti cimentasti come coreografo?

Si trattò di un solo, “Andromeda”, che creai per una ragazza della scuola della Scala, Veronica Colombo, la quale performò al Teatro Manzoni di Pistoia. Seguì un trittico “Orion” che andò in scena prima al Teatro Greco di Roma e poi al Manzoni di Milano. Il primo spettacolo davvero importante fu “Shock” che realizzai con l’amico regista Andrea Forte Calatti. In quell’occasione invitai Vaziev, allora direttore del corpo di ballo della Scala, il quale mi propose una creazione per il teatro.

Vaziev fu una figura importante per me. Una persona con cui ho potuto condividere tanto e in maniera totale. Fu grazie a lui che, nel 2011, nacque “L’Altro Casanova”. L’idea da cui nasce il balletto non è il personaggio, quanto ciò che oggi una figura del genere rappresenterebbe. Volevo mettere in evidenza la sua essenza più profonda. Scelsi quindi di far rivivere quest’uomo dalla vita straordinaria attraverso una donna e decisi di accompagnare le coreografie con le musiche del settecento italiano. Il mio “Casanova” fu la splendida Polina Semionova.

Usi sempre la parola “perfomare”, termine che appartiene al linguaggio contemporaneo e della sperimentazione. Perché?

Performare mette l’accento sul danzatore, sulla persona e contemporaneamente sul rapporto e  sullo scambio che si crea in sala con il coreografo durante le prove. È un viaggio che si inizia assieme in cui ci si arricchisce assieme.

Spesso però mi è capitato di lavorare con le masse. Dal Teatro alla Scala fino al Balletto Nazionale dell’Estonia e il corpo di ballo del San Carlo di Napoli col quale collaborerò prossimamente. In queste occasioni ( non puoi essere performante)  è difficile riuscire ad avere sufficiente tempo per un profondo scambio con tutti i danzatori. Ovviamente si cerca di creare” hic et nunc” approfittando di intuizioni e creatività, tuttavia soprattutto nelle scene o nelle danze in cui sono coinvolti molti danzatori  meglio essere padrone della coreografia e riportarla. Col singolo si può lavorare in maniera diversa. Con alcuni è semplice e bellissimo, con altri meno.

Il tuo repertorio attinge a un bacino “conosciuto”. Da Andromeda fino a Casanova hai raccontato storie già note. Quant’è importante la narrazione nelle tue coreografie?

 Tutto nasce dal tipo di spettacolo che voglio fare o mi chiedono di fare. Di certo, in Italia in particolare, la narrazione ha un grosso peso. Innanzitutto per motivi di costi. Se racconti una storia famosa, è più facile che la gente vada a teatro. Da un punto di vista drammaturgico invece, almeno per me, la reinterpretazione di una storia nota al grande pubblico pretende un’idea geniale. Altrimenti meglio attenersi all’originale. Prossimamente farò al San Carlo “Alice nel paese delle meraviglie”. Sarà una versione abbastanza legata alla tradizione. Questo perché il tipo di teatro e il pubblico di riferimento me lo richiedono. Al Balletto di Roma, col quale collaboro, il tipo di narrazione è meno tradizionale e più sperimentale.

Perché diventare un coreografo?

Per soddisfare il proprio ego? Forse. Per esprimere qualcosa? Certamente. Ma prima di tutto perché ci sia qualcuno che guardi il tuo lavoro e colga, insieme con te, l’emozione cui hai voluto dar voce.

Ogni coreografo si caratterizza per uno stile, per un’intenzione che attraverso il passo prende forma. Se dovessi definire quell’intenzione?

 Il concetto base è l’onda; un movimento sinuoso nella circolarità. A prescindere dalla storia che racconto. Il movimento che ricerco vorrei fosse elegante e sensuale. Non importa che sia un uomo o una donna a esprimere l’intenzione cui desidero dar forma, ma voglio che si rispetti la circolarità del movimento e la sinuosità di una certa dinamica.

Parliamo del tuo “Casanova”.

Si è trattato della mia prima opera per un grande teatro e ancora oggi, rivedendolo, mi capita di cogliere momenti emotivamente molto forti. Certo, ritrovo alcune ingenuità ed errori, ma lo spettacolo andò bene. Ogni elemento del mio Casanova aveva una motivazione profonda; dall’utilizzo della musica del 700 italiano fino all’uso di un pavimento specchiato che richiamasse le acque della laguna veneziana. La Semionova fu meravigliosa: umile e gentile. La raggiunsi a Berlino per le prime prove e si comportò come una bambina che ascolta la lezione del maestro senza mai batter ciglio.

Parliamo di talento nella coreografia. Si raggiunge nel tempo? Si ha di natura? Si può costruire?

La scintilla “divina” o l’hai o non l’hai. Ma il fare, l’esperienza sul campo, la capacità di osservare gli altri costituiscono un buon cinquanta per cento delle tue capacità. Personalmente sono molto veloce nel creare una coreografia. Questo perché ho bisogno di vedere le sequenze per poi modificarle.

Se torni indietro e ti astrai dal tuo attuale impegno di coreografo, quali sono le esperienze di danzatore che ti hanno particolarmente segnato?

Esiste un background che è quello della danza classica. In particolare le coreografie di Balanchine e Nureyev. E poi Mats Ek, Béjart, Roland Petit o Preljocaj di cui amo la capacità di raccontare la storia rendendola sempre originale. Nel suo lavoro si coglie lo spirito di collaborazione fra tanti che porta a una confezione perfetta. Ballare queste coreografie lo trovavo liberatorio.

A cosa stai lavorando?

Al momento sono impegnato nella realizzazione delle coreografie per il concerto di Capodanno che verrà trasmesso su Rai 1 il 1 gennaio alle 12. Quest’anno le locations sono  decisamente accattivanti. Infatti la regista Arnalda Canali mi ha proposto di girare  alla Biennale di Venezia in vari padiglioni e di concludere alla Fenice come già è accaduto in alcune edizioni passate, ma con un brivido in più. Antonino Sutera e Emanuela Montanari danzatori del Teatro alla Scala eseguiranno dal vivo alcuni momenti del “libiam” aria verdiana consueta per concludere con un brindisi il concerto e celebrare l’inizio del nuovo anno. Il tentativo spero riuscito è quello di dare a un evento super tradizionale un abito diverso, un po’ più fresco e contemporaneo.

 Inoltre sto lavorando in Scala come ballerino in “Romeo e Giulietta” e a marzo sarò al Teatro San Carlo di Napoli con “Alice nel paese delle meraviglie”.

Secondo te c’è stata un’evoluzione dalla tua prima coreografia all’ultima composta? E se sì, di che tipo?

 Certo, non posso parlare di evoluzione ma di certo, c’è stato un cambiamento. Come dicevo prima il mio lavoro cambia a seconda della mia crescita personale del teatro o della compagnia con cui mi trovo a collaborare. Generalmente è più comodo per me lavorare in teatri tradizionali che prevedono un repertorio classico. Sebbene oggi le mie coreografie sono meno ingenue e  rimangono frutto di una ricerca e di un’attenzione alla storia e ai dettagli, non mi dispiacerebbe abbondonarmi a esperienze in cui il caos o la totale “non preparazione” fossero i confini entro cui muoversi. Un viaggio più profondo dentro di me, senza filtri razionali. Solo io e la musica….

Secondo te, come coreografo, hai fortuna o meriteresti di più?

Io penso che nella vita abbiamo ciò che ci meritiamo. Se io sono a questo punto, è perché tutto quello che ho fatto, mi ha condotto fino a qui. Mi ritengo molto fortunato perché non tutti hanno avuto le mie possibilità. Di alcune cose sono molto orgoglioso, altre sono perfettibili. Lo spettacolo più bello è quello che ancora devo fare. Potrei avere di più? Forse. Ciò che mi piacerebbe è maggiore continuità. La pratica e l’esperienza rendono il lavoro migliore. Sempre!

Hai detto: “Lo spettacolo più bello lo devo ancora fare”. Qual è questo spettacolo?

Ce ne sono tanti. Da qualche tempo lavoro su un paio di titoli di cui non esistono elaborazioni in balletto. Parlo per esempio de “Il piccolo principe”. Mi piacerebbe creare qualcosa che non ancora esiste. Libero di percorrere una strada inesplorata e nuova.

L’intervista è terminata e sul finire di questa lunga chiacchierata ci raggiunge la signora Anna Maria Prina, che ci ha gentilmente ospitato presso la sua casa milanese. A lei un’ultima considerazione su questo giovane coreografo.

Gianluca è sempre stato un ragazzo evidentemente intelligente. Una persona pensante capace di valutare ogni singola cosa, e dare ad esse il giusto valore. E poi un ragazzo colto che ha studiato. E questo non è un aspetto per nulla trascurabile. Ricordo con affetto lo scambio di libri che intercorreva tra di noi ai tempi della sua laurea che si chiuse con una bellissima tesi sulla scuola di ballo del Teatro alla Scala. Oltre a ciò ho sempre apprezzato la persona. Gianluca è cresciuto bene. Da esecutore è divenuto un creativo, pensante e capace. Ogni scelta è stata ponderata e voluta. Gli auguro una lunga carriera, in Italia e all’estero.

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