Oggi ricordiamo Mario Pistoni, artista a tutto tondo della danza italiana del secolo scorso che non ha mai amato le copertine appannaggio di un lavoro di ricerca assai impegnativo. Ed alla lunga i risultati hanno ripagato la qualità cercata a tutti i costi dal ballerino, coreografo e direttore romano, tra l’altro scomparso a soli sessant’anni. Mario Pistoni nacque a Roma nel 1932 e fu allievo della Scuola del Teatro dell’Opera con insegnanti di fama quali Ettore Caorsi e Teresa Battagli, entrando sedicenne nel Corpo di Ballo al Costanzi direttamente da solista. Solo diciottenne debutta come Primo Ballerino in “La soglia del tempo” di Bela Bartok e la coreografia di Aurel Milloss. Un avvio a dir poco promettente che, tra l’altro, Mario Pistoni ha portato avanti con determinazione, fino a scalare le gerarchie dei teatri e dei contenuti di volta in volta rappresentati. Da subito il giovane Mario Pistoni si era avvicinato a libretti, coreografi e compositori di nicchia, cercando un nuovo linguaggio coreutico che sapesse inebriarsi della maggiore ricchezza culturale ed artistica possibile. Per queste ragioni abbiamo definito il nostro Mario Pistoni un artista davvero a tutto tondo!
La prima parentesi romana cedette il fianco presto a quella meneghina, più intrigante e forse meno rassicurante di quella capitolina e di casa. Tanto che nel 1951 venne chiamato a far parte del Corpo di Ballo del Teatro Alla Scala come solista, perfezionando così la sua formazione sotto la guida di Lubov Tchernicheva ed Esmee Bulnes, acquisendo il titolo di Primo Ballerino nel 1953 ed addirittura di Primo Ballerino Assoluto nel 1958. Questi anni furono tra i più significativi per l’interprete Mario Pistoni, tanto da essere scelto quale protagonista dei più importanti balletti del repertorio classico e moderno in Italia ed all’estero. Del resto gli anni Cinquanta e Sessanta si schiudono con la duplice firma di Mario Pistoni nelle vesti ancora di interprete ed anche di coreografo, mostrandosi pian piano nella sua natura più intima di ricerca e di innovazione, non tanto nell’ambito della forma e della sostanza quanto quella dei meri contenuti.
Tuttavia nel 1956 è ancora protagonista in scena in “Mario e il Mago” di Leonide Massine, Franco Mannino e Luchino Visconti, e poi in “Sebastian”, ovvero la prima coreografia di Luciana Novaro su musica di Giancarlo Menotti. La spirale dei titoli poco titolati era ormai avvinghiata sulla stessa mano creativa del ballerino romano, come nel “Don Juan” del 1958, coreografato ancora da Leonide Massine, su musiche di Cristoph Willibald Gluck, e nel “Romeo e Giulietta” di John Cranko, accanto a Carla Fracci. A quell’epoca interpretare un pas de deux con l’etoile milanese significava diventare ed essere il partner-uomo per eccellenza per cui, anche Mario Pistoni, non lesinò mai il palcoscenico accanto alla diva del repertorio di balletto ottocentesco. Eppure le sirene della coreografia suonavano sempre più forte, fino a fargli fondare la compagnia dei “Solisti del Teatro Alla Scala”, con un repertorio sempre più vasto ma, soprattutto, sempre più distante dallo stile tradizionale che comunque fu accolto con favore anche all’estero.
Questo era solo il preludio al debutto vero e proprio nelle vesti di coreografo al Teatro Alla Scala nel 1960, con il titolo “Il figliuol prodigo” su musiche di Sergej Prokofiev ed una valigia piena di speranze. Eh sì, proprio come con i “Solisti del Teatro Alla Scala”, anche con i professionisti della compagine di balletto Mario Pistoni voleva emancipare il pubblico e lo stesso comparto-danza del Massimo meneghino. Uno sforzo che sapeva tanto di utopia che il coreografo romano voleva tanto realizzare in scena. Come nel 1963 quando creò “Spirituals”, titolo per orchestra su musica di Morton Gould, anteprima di una narrativa “Francesca da Rimini” allestita sulle musiche di Piotr Ilich Ciaikovskij nel 1965 ancora per il Corpo di Ballo del Piermarini. Fino ad uno dei titoli che gli hanno cambiato senz’altro la vita, quel balletto “La strada” del 1966, su musica di Nino Rota, il cui personaggio di Gelsomina fu interpretato da Carla Fracci con il ruolo del Matto cucito personalmente sulla sua pelle. Un successo straordinario di cui ancora oggi resiste l’eco con le recenti interpretazioni al Teatro di San Carlo di Napoli e l’ancora più datata interpretazione di Oriella Dorella. “La strada”, tratta naturalmente dal film di Federico Fellini, ha segnato buona parte dell’idea di danza di Mario Pistoni e di tanti altri nomi a lui contemporanei, protagonisti essi stessi sia in scena che dietro le quinte. Un universo sotterraneo rispetto ai titoli del repertorio ottocentesco eppure in fermento, proprio come esattamente voleva Mario Pistoni sin dai suoi primi passi coreografici.
E così oggi possiamo ancora rileggere quelle idee attraverso altre coreografie quali “Elegia”, su musica di Alearco Ambrosi e testi poetici di Raphael Alberti; “Ritratto di Don Chisciotte”, con le scenografie di Lucio Fontana; “Il mandarino meraviglioso” di Béla Bartók di cui fu anche interprete nel ruolo del titolo, affidando alla musa ispiratrice Luciana Savignano la parte della prostituta. Qui entriamo di diritto nel novero delle rivisitazioni di successo, con un mandarino che divenne celeberrimo con la straordinaria interpretazione di Luciana Savignano, ballerina scaligera troppo spesso relegata nelle file del Corpo di Ballo scaligero sin lì. Un peccato originale che solo l’autore e coreografo Mario Pistoni seppe cancellare dalla storia del Piermarini, scegliendo la ballerina dagli occhi a mandorla quale virtuoso personaggio di virtù non esclusivamente tecniche ma assolutamente interpretative. La prostituta del mandarino di Mario Pistoni è, a nostro avviso, uno dei ruoli più significativi del repertorio del secondo Novecento e Luciana Savignano diede prova di poterlo fieramente interpretare a scanso dei tanti equivoci sulla sua carriera di quegli anni.
A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta Mario Pistoni ebbe una mano ancora fecondissima, basti pensare ai titoli in successione “The Macbeths”, su musica di Richard Strauss, “Adagio”, su musica di Tomaso Albinoni, e “Concerto dell’albatro”, su musica di Giorgio Federico Ghedini ma soprattutto cucito sul corpo, sulle linee e sulla personalità di Luciana Savignano. Ormai il sodalizio tra il coreografo e la sua ballerina era avviato alla consacrazione ma l’albatro sembrava alludere anche al suo congedo dal Teatro Alla Scala da lì a qualche mese, dopo quasi trent’anni di intensissima e prolifica attività.
In questi anni infatti il coreografo romano tornò a casa e creò per il Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera “Romeo e Giulietta”, su musica naturalmente di Sergej Prokofiev, accettando infine l’incarico di Direttore della compagnia capitolina per un biennio. In quegli anni però decise di diversificare i suoi impegni, stavolta profusi per la televisione italiana e straniera ed anche per i teatri di Stato di Belgrado e Brno e gli stabili di Bonn e Barcellona. Fino ad assumere la direzione del Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo di Napoli. Per il Teatro Alla Scala nel 1984 riallestì il balletto “La strada”, del quale nel frattempo furono prodotti due film, trionfando in una lunga tournée in Francia, Svizzera e Belgio. L’ultimo viaggio lo condusse a dirigere il Corpo di Ballo del Teatro dell’Arena di Verona, giusto per ultimare il mosaico con il tassello tra i più preziosi che oggi annoveriamo tra i fallimenti della gestione della cultura coreutica di questi ultimi anni. Cosa avrebbe pensato Mario Pistoni della chiusura del Corpo di Ballo del Teatro dell’Arena di Verona?
Crediti fotografici: Francesco Squeglia