Le gioie e i dolor della ballerina; ode alla scarpetta da punta

di Lia Courrier
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Le mie prime scarpette da mezza punta erano di pelle, con la suola intera, quelle che farebbero il piede a paletta anche ad Alessandra Ferri. Le dita non avevano ancora la forza per piegare la suola ed era così faticoso stendere quei piedini di seienne lì dentro che per anni, in tutte le foto dei vari saggi, sembrava che indossassi delle ciabattine arabe, quelle con la punta all'insù. Anni dopo sono passata alle scarpe di tela, sicuramente più gestibili, ma ho dovuto aspettare l'arrivo delle più recenti mezze punte con la suola a goccia per poter dire di stare veramente comoda e di riuscire a sentire il pavimento sotto ai piedi.

Anche per le scarpe da punta la tecnologia ha trovato nuove soluzioni, nuovi materiali, e piccoli accorgimenti, che gli artigiani hanno messo a punto insieme alle ballerine, per migliorare le prestazioni di questo delicato calzare, che oggi è diventato un raffinato strumento di lavoro scientificamente evoluto. Le scarpe che usavo io, soprattutto nei primi anni di studio sulle punte, al confronto di questi gioiellini del progresso, somigliano più a quel famoso primo paio di scarpe fatte confezionare da Filippo Taglioni per la figlia Maria, leggendaria prima interprete assoluta de La Sylphide, primo balletto della storia sulle punte. Beh, forse sto esagerando, ma si trattava di scarpe che, solo a guardarle, ti facevano venire le vesciche ai piedi e avevano una punta che più a punta non si può, sembrava fossero state temperate come matite. Ecco, diciamo che non collaboravano molto nell'esecuzione della danza, per questo oltre a doversi armeggiare per stare in equilibrio su quella microscopica base d'appoggio, bisognava anche operare diverse modifiche per prepararle all'uso: conoscere il punto migliore in cui cucire i lacci, dove gli elastici, fare ricami sulla punta per ampliarne la superficie e renderla più stabile, gratta di qua, cuci di là, manipolazioni varie per trovare il giusto assetto di suola e gesso. Ognuna aveva i suoi piccoli segreti per rendere le scarpe da punta agibili per la lezione o le prove, e ricordo di aver passato gran parte degli anni da ballerina classica con ago e filo in mano a ricamare, ma sono sicura che questi gesti siano presenti anche oggi nella vita quotidiana di ogni danzatrice. Per fortuna, quando ero piccola, la nonna e la zia mi avevano insegnato a ricamare al telaio, perché nella Sicilia che ha visto i miei natali, se eri una femmina, imparavi a cucinare la parmigiana, stirare le camicie e fare le pulizie prima ancora di pronunciare la tua prima parola. Così quel bagaglio di abile cucitrice, da me sempre rifiutato in quanto simbolo della sottomissione femminile al patriarcato, si è rivelato molto utile per queste importanti operazioni.

In quegli anni non erano ancora stati inventati i puntali di silicone per proteggere le dita dei piedi dallo stivaletto cinese. Non dico che mettevamo le bistecche dentro alle scarpe, come ironicamente ha fatto Cristiana Morganti nella sua performance per il film "Pina" di Wim Wenders, però poco ci mancava. Per minimizzare le ferite alle nocche delle dita, oltre ai cerotti, impacchi di alcol per indurire la pelle, pediluvi con acqua e sale, usavo il cotone idrofilo modellato e sistemato dentro alla punta, che aveva anche il compito di creare spessore lì dove il gesso aveva ceduto. Purtroppo il cotone, però, ha una caratteristica micidiale: si surriscalda fino a raggiungere le elevate temperature di un altoforno, producendo come risultato, dopo una giornata di prove, un bel paio di cotechini cotti a puntino al posto dei piedi, rossi, gonfi e doloranti, da servire con le lenticchie al cenone di capodanno, sempre che prima no li si voglia ficcare nel secchiello dello spumante. Solo negli ultimi anni come ballerina classica ho avuto la fortuna di poter provare un modello di nuova generazione: che sensazione magnifica sentirsi comode dentro ad una scarpa che ti sostiene nella salita ma non ti impedisce di scendere morbidamente, con una punta ampia, forte ma duttile, che non fa rumore sulle assi del palcoscenico! Queste nuove amiche mi hanno concesso equilibri più lunghi, pirouettes controllate e una notevole fluidità nel movimento…poi si dice che l'abito non fa il monaco!

Qualche tempo fa ho ritrovato l'ultimo paio di questo modello di scarpa da punta in mio possesso. Non so da quanto tempo le conservavo lì, come una reliquia, poiché la vita mi ha poi portato ad abbracciare altre danze e altre visioni del movimento. Quando le ho riviste lì, saltate fuori da chissà dove nella fase di cambiamento per eccellenza, durante un trasloco, ho capito che era giunto il momento di separarmi definitivamente da quell'oggetto, non solo fisicamente ma anche emotivamente, e volevo farlo in un modo speciale, come piacerebbe a Jodorowsky, con un atto magico che fosse in grado di mettere a riposo quella parte di me che non mi appartiene più. Allora ho deciso di portare quel paio di scarpe, tutte sporche e rovinate dall'uso, in omaggio a Pierina Legnani, che ha trovato il suo riposo eterno in un piccolo cimitero anonimo, arrampicato su una collina in una zona poco battuta del lago di Como, dalla quale si gode di una vista mozzafiato. Volevo farle vedere quanto sono cambiate rispetto a quelle che indossava lei.

Se ci andate forse potreste trovarle ancora appese lì, accanto alla sua foto.

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