I festival di danza, musica e teatro estivi hanno sempre un fascino particolare sul pubblico per l’ambiente meno formale, per i contesti meravigliosi e inusuali in cui si svolgono e per i programmi spesso meno “visti”, non che per i prezzi generalmente più accessibili.
E quando all’orizzonte compaiono eventi come il Cigognola Summer Festival, non bisogna farseli scappare. Giunto alla sua seconda edizione, questo piccolo festival gioiello nella cornice del Castello di Cigognola della famiglia Moratti con serata finale al Teatro Fraschini di Pavia è un classico esempio di eccellenza nel panorama dei festival estivi. Ha infatti coniugato in quattro serate grandi musicisti cantanti e ballerini: in prima serata i Cameristi della Scala, diretti da Giulio Prandi, impegnati in un concerto sinfonico – barocco insieme a cantanti di valore come Federico Fiorio e Alessandro Ravasio. Poi il trio Zanon, Piccotti e Gorini per una serata di musica da camera tutta incentrata su Brahms, e infine una serata di danza con i ballerini del Teatro alla Scala. Chi vi scrive è andata alla serata finale al Fraschini, ma l’anno prossimo, se il Festival si rifarà come auspico fortemente, sarà d’obbligo andare al castello.
Venendo alla serata finale che ha riunito in un solo spettacolo i protagonisti del festival, devo dire di aver visto dal mio palchetto uno spettacolo di eccellenza da tutti i punti di vista.
Caravaggio di Mauro Bigonzetti è una delle sue più riuscite produzioni ed è stato magistralmente eseguito da Agnese Di Clemente e Claudio Coviello. Bravissimi: un legato speciale, posizioni che da classiche si trasformano in off balance decisamente moderni, una tensione esecutiva altissima, mancavano solo le luci di Carlo Cerri a sottolineare i chiaroscuri di Caravaggio, peraltro difficili da realizzare in una serata di gala come questa (unico neo, nel programma di sala era annunciato un improbabile Romeo e Giulietta di Petipa…).
Seguono le tre Gymnopedies di Roland Petit ballate da Edoardo Caporaletti e da Paola Giovenzana. Le ricordo in uno spettacolo dell’Accademia in cui le ballarono Jacopo Tissi ed Elena Bottaro, prima che partissero entrambi alla volta di Vienna da Legris. Qui Petit ha saputo ben rappresentare la stravaganza e le pose di un artista totalmente fuori dalle righe come Erik Satie. E i due ballerini scaligeri hanno interpretato molto bene le morbidezze dei movimenti e la freddezza della relazione fra i due caratteri.
L’acustica nitida del Fraschini ha sottolineato l’eccellente esecuzione del primo struggente movimento Allegro con brio – Tranquillo del Trio n°1 di Brahms da parte di Giovanni Andrea Zanon al violino, Elena Piccotti al violoncello (brava, una scoperta per me) e l’ottimo Filippo Gorini al pianoforte.
Questi ultimi due solisti hanno poi suonato il celebre e meraviglioso Spiegel im Spiegel di Arvo Pärt, ballato su coreografia di Matteo Gavazzi da Linda Giubelli e Domenico Di Cristo, due giovani elementi scaligeri di spicco, lui appena nominato solista e lei nel corpo di ballo. Un passo a due interessante, terreno, drammatico dove i corpi si incontrano ma sempre scrutando lo spiegel, lo specchio, come cercando qualcosa che deve succedere spesso rivolti alla quarta parete. Intensi, sempre profondamente nella parte, bravi e bravo anche a Matteo Gavazzi che nella coreografia sta trovando sviluppi molto interessanti.
A seguire, Alice Mariani e Nicola del Freo hanno ballato da manuale il passo a due da Sylvia su coreografia Manuel Legris, spettacolo reduce dai recenti successi scaligeri.
Un accorato “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo di Haendel cantato da Federico Fiorio ha commosso la platea, caricando la molla per un esplosivo passo a due dal Corsaro di Petipa con Mattia Semperboni sempre un Alì brillante e pieno di virtuosimi (mai abituarsi ai ruoli) e Caterina Bianchi, brava e precisa nel suo difficile assolo sulla coreografia spesso ballata dalla Zakharova, seppur con qualche difficoltà nella coda; ma, si sa, le code di Petipa possono risultare infingarde.
Non mi resta che ribadire la speranza che questo festival così ben pensato, di alto livello qualitativo e fruibile per tutti (caratteristiche raramente accomunate) si replichi negli anni a venire e diventi una tradizione dell’Oltrepò (con o senza accento?) magari in sinergia con la promozione dei tesori del territorio (evviva la Bonarda).