Carla Fracci: l’eterna fanciulla danzante si racconta. Seconda parte

di Francesco Borelli
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Raccontare un’emozione non è mai semplice, soprattutto quando a regalartela è colei che, attraverso la propria danza, ha scritto la storia della cultura e del balletto del nostro paese. Due appuntamenti per raccontare Carla Fracci non bastano, forse non basterebbe neppure un’enciclopedia, ma tra le righe, le poche scritte, si coglie l’anima di quella donna minuta, dalle caviglie esili ma con la forza di un leone. Molti la definiscono regina, altri stella, alcuni icona. Impossibile, a mio avviso, definire il mito, relegarlo a una parola in cui racchiudere il senso profondo della donna e dell’artista. Di certo Carla Fracci è mille cose assieme; danzatrice assoluta, attrice, donna forte e determinata, moglie e madre. In questa seconda parte dell’intervista, frutto del nostro magico incontro, continua a raccontarsi senza riserve e con sincerità. A volte solleva gli occhi quasi vedesse, tra i ricordi, volti e luoghi, altre abbassa lo sguardo e prende tra le dita i lunghi capelli neri, accarezzandoli con la grazia e la bellezza che solo a lei appartengono.

Nella sua carriera ha avuto accanto partner eccezionali. Ci racconta il suo rapporto con Rudolf Nureyev?

Ci volevamo bene, ma avere un rapporto con Rudy non era per niente facile. Si trattava di un danzatore straordinario, ma anche di un uomo molto difficile, competitivo, capriccioso e in alcuni casi così tremendo da essere scorretto. In un’occasione, dopo il passo a due di Don Chisciotte alla chiusura della promenade, rimasi in balance più del previsto e non feci le due piroette previste dalla coreografia. La sera dopo non mi tenne per impedirmi il virtuosismo. Con Nureyev bisognava essere più forti di lui e pretendere rispetto. In caso contrario ti avrebbe schiacciato. Al contempo era un uomo generoso, pieno di tenerezze e molto solo. Viveva in maniera intensa ogni istante, quasi temesse di pensare a ciò che non aveva e non poteva acquistare. Mi diceva ” Tu hai una famiglia, un figlio, io ho solo il teatro”. Spesso trascorrevamo insieme le vacanze. Durante i giorni di Natale che passò con la mia famiglia a Firenze, una mattina, mi raccontò di un sogno che aveva appena fatto. Camminava nel deserto e a un certo punto trovava davanti a sé una scala fatta di pane e in cima alla scala c’era la madre che piangeva. Aveva grande nostalgia di lei. E credo sia riuscito a vederla solo quando lei stava già molto male.

Un uomo pieno di contraddizioni.

Esatto. Forte e deciso, ma fragile al contempo. Era solo, ma non amava che la gente si attaccasse a lui quasi temesse di perdere la propria libertà e indipendenza. Non ha mantenuto alcun rapporto neppure con le sorelle, non voleva sentir parlare russo. Era trasgressivo e cercava, in continuazione, qualcosa che potesse regalargli un’emozione. Al di là del teatro. La notte faceva tardi eppure l’indomani era puntuale alla sbarra. Ebbe una lunga relazione con Erik Bruhn, il quale soffriva delle assenze e delle mancanze di Rudy. Sfogandosi con me, diceva: “Vuole sempre uscire. Di me non gliene importa nulla”. Due persone completamente diverse e due fisici differenti. Pensi che Rudy, durante gli spettacoli, aveva il massaggiatore dietro le quinte. Erik dal canto suo aveva una muscolatura lunghissima che non aveva bisogno di continue manipolazioni.

Che persona era Erik Bruhn?

Erik era un artista superbo. Danseur noble per definizione era nato in Danimarca. Tecnicamente era perfetto, eseguiva ogni passo con estrema pulizia. Linee bellissime e maestro eccezionale. E poi era un uomo dolcissimo. Danzare con lui era pura magia. Non so cosa accadesse, è difficile da spiegare. Ma danzavamo realmente “assieme”, quasi a diventare una persona sola. Ci incontrammo la prima volta nel 1962 per “La Sylphide” in scena al Teatro dell’Opera di Roma.

Qual è il suo rapporto col Teatro alla Scala?

E’ stata la mia casa per tantissimi anni. L’ultima creazione che mi ha visto protagonista è “Chéri” di Roland Petit. Era il 1996. Alla Scala mi lega un affetto speciale. Sono nata in quelle sale, sono cresciuta su quel palco. Lì ne ho vissute tante ed ho, nella maggior parte dei casi, ricordi meravigliosi. Ciò che oggi mi rammarica è non poter donare agli allievi e ai giovani danzatori, tutta la mia esperienza. C’è bisogno di maestri che spieghino ai ragazzi l’universo danza. Non è solo una questione di sequenze, diagonali o virtuosismi. Dietro ogni balletto o personaggio, esiste un mondo. Prenda la Silfide: una figura eterea, inafferrabile, con un pizzico di cattiveria. Ci sono la malizia, la sospensione del passo. Chi spiega tutto questo? L’occasione di incontrare veri maestri e di poter apprendere da loro è un grande tesoro.

Quanto è importante la tecnica, e quanto l’artisticità nella definizione di danzatrice?

Sono entrambi elementi importanti. Nel 1961 Balanchine mi scelse per interpretare Odette nel secondo atto del Lago dei cigni. I miei detrattori attendevano che mi cimentassi nei trentadue fouettés. Li feci, così come li ho sempre fatti. Margot Fonteyn, che come ho già detto, amavo e stimavo infinitamente, sostituiva i fouettés con un manège de piqués. Così come Majja Pliseckaja che in più occasioni saltò questa prova virtuosistica. Ma si sa, le regole non sono uguali per tutte. La tecnica, la pulizia, la bellezza delle linee sono elementi fondamentali. Ma come ho più volte sottolineato dietro a ogni singolo passo, esiste un mondo cui dar voce. E certe sensazioni che si vivono in scena, e solo in scena, non te le può insegnare nessuno. Ciò che avviene sul palco è pura magia. Lassù la vita è diversa e non si può esprimere a parole.

Altro suo grande partner fu Michael Baryshnikov.

Anche con Misha ho lavorato moltissimo. La prima volta fu nel 1975 al Festival di Spoleto. Dopo quella prima esperienza ci ritrovammo in tante occasioni; “Giselle”, “Romeo e Giulietta”, “Lo Spettro della rosa”, “La Sylphide”. Durante il periodo di lavoro al Maggio Fiorentino, fu ospite della nostra casa di Firenze e trascorse con noi molto tempo. Era nato per la danza, per lui era qualcosa di naturale. Grande artista, ma anche molto lunatico. Un giorno ti abbracciava come fossi la persona più importante della sua vita e quello successivo neppure ti salutava.

Da Nureyev a Baryshnikov, da Margot Fonteyn fino a Erik Bruhn. Grandissimi partner e grandissime amicizie che hanno costellato una carriera e una vita di per sé straordinaria.

Sono stata una donna fortunata. La mia vita è stata piena e ho fatto tantissime cose. Quest’esistenza un po’zingara mi ha regalato esperienze e incontri eccezionali. Mi ha legato una bella amicizia anche ad Alicia Alonso, cui Fidel Castro ha regalato una grande compagnia. Donna piena di forza, non vedente eppure in grado di fare qualsiasi cosa. Per me creò una coreografia bellissima in cui raccontava i tre momenti della vita di una donna. E’ incredibile: ancora oggi monta coreografie con un maitre al quale riferisce ogni singola sequenza, ogni singolo passo. E’una forza della natura. Non ha mai smesso di danzare.

Di recente è stata protagonista di un importante lavoro dal titolo “Il Lillà” andato in scena lo scorso ventotto settembre presso il Moscow State Musical Theater. Ce ne parla?

E’ stata una meravigliosa esperienza e un incredibile successo. Ho recitato la parte di Vera Skalon, giovanissima cugina del compositore Rachmaninov. Il balletto racconta dell’incontro tra Vera e Sergey avvenuto in estate presso la villa di un benestante amico comune. Dopo un primo incontro in un giardino di lillà i due non si videro più e Sergey ha riversato la nostalgia e l’amarezza di quell’amore mai realizzato in molte sue composizioni musicali e in una romanza “Il lillà” che ho recitato in italiano. Le coreografie erano di Nikolai Androsov con cui già avevo collaborato al Teatro dell’opera di Roma per i “Ballet Russe”.

Rita Levi Montalcini le diceva: “Mai andare in pensione”.

Donna di grande intelligenza, dedita al lavoro e alla responsabilità nei confronti di esso. Ho in mente la sua voce da centenaria dirmi esattamente queste parole. La vita, credo, sia fatta di scelte. Io ho scelto la danza e non ho mai pensato di fermarmi. Per me è sempre stato naturale.

Come ritiene sia la situazione della danza in Italia in questo momento?

Non è buona. I teatri sono smantellati e i corpi di ballo non esistono quasi più. Io ho dedicato la mia intera vita alla danza. Per me stessa, ma anche e soprattutto per l’Italia. Ho portato la danza al grande pubblico raccontando storie meravigliose. Per dieci anni ho diretto il corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma e con me il teatro ha vissuto anni di grande fulgore. Bisognerebbe investire nella cultura e creare una compagnia nazionale di balletto che possa portare nel mondo le nostre eccellenze. Ho lottato molto per questo, esponendomi in prima persona e facendo politica attraverso la danza. Chissà che un giorno le cose non possano cambiare.

Chi è Carla Fracci oggi?

Sono ciò che mi ha reso la vita. Il frutto di tutto ciò che ho vissuto. I miei affetti, la mia campagna, la mia infanzia, rappresentano un mondo in cui mi rifugio quando sono a corto di me stessa. La mia carriera, i successi, i momenti di difficoltà li ho apprezzati in un caso e superati nell’altro, grazie ai valori che tengo stretti a me. E poi la mia famiglia. Mio marito Beppe e mio figlio Francesco sono le cose più importanti della mia intera vita.

L’incontro con Carla Fracci si è protratto a lungo. E dopo questo infinito e piacevole discorrere ho capito una cosa: per alcune persone il tempo non passa mai. La signora Fracci rimarrà per sempre l’eterna fanciulla danzante descritta da Montale. Che interpreti Giselle o Giulietta, che sia sul palco soave e incantatrice o, semplicemente, seduta in poltrona a raccontarsi, rimane “più leggera dell’aria, più lieve di un sospiro”. Ha fatto tanto, ha fatto bene. Orgoglio nazionale e monumento della danza senza eguali e senza pari. La Fracci è la storia e il futuro. E’pura grazia e forza insieme. Se è vero che sul palco la vita è diversa, è vero anche che la nostra regina della danza, ha reso la sua vita, un infinito indimenticabile spettacolo.

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