L’HEURE EXQUISE – Alessandra Ferri e il genio di Béjart al Piccolo Teatro

Nives Canetti ha visto per noi "L'heure exquise" con Alessandra Ferri e Thomas Whitehead

di Nives Canetti
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Niente intervallo nel foyer questa volta. “Solo” una piccola pausa al buio nei 70 minuti di questa ora squisita: pura poesia poter rivedere in scena Alessandra Ferri al centro de “L’heure exquise”, una pièce pensata da Maurice Béjart per Carla Fracci nel ‘98 sui Giorni Felici di Beckett.

Tanti ricordi si accavallano: Giulia Lazzarini con Strehler, Adriana Asti con Bob Wilson. E poi la Fracci con Béjart. Ora si aggiunge Alessandra Ferri. Sono stata molto fortunata.

La trasposizione in chiave danza è stata uno dei colpi di genio di Béjart che rilegge “Giorni felici” su una ballerina âgée che dal momento del risveglio rivive la sua vita attraverso dei flash, con i suoi momenti belli e quelli drammatici, galleggianti in una dimensione scandita dal tempo inesorabile, da lunghi silenzi e dagli oggetti della sua vita, un profumo, un fiore, l’inesorabile specchio di sala, la sbarra, la pece e perfino una pistola. È accompagnata dal vecchio partner Willie che la cura e che le sta accanto rivivendo con lei ogni secondo della sua ora squisita. Brividi, specialmente quando il tutto è sottolineato dalla musica di Mahler.

Anche se la recitazione della Ferri può risultare forse un po’ naïve all’inizio (lei stessa nel testo dichiara che le sarebbe piaciuto essere un’attrice ma è in effetti una ballerina), è ovviamente proprio quando balla che, uscendo dai canoni di costrizione e di immobilità della Winnie attrice, Alessandra Ferri raggiunge vette interpretative alte e assai rare di questi tempi.

Ferri rende alla perfezione la felicità e la costrizione di Winnie su quel palcoscenico che è la sua vita e che, se da una parte la chiude in una collina “sacra” di tremila scarpette da punta, dall’altra la proietta verso un orizzonte infinito al di là della quarta parete e che ci comunica tutta la poesia, il dramma, l’ironia e l’assurdità di un’esistenza fatta di danza.

Bravo Thomas Whitehead, esuberante e diverso rispetto al Winnie di Carsten Jung che avevo trovato più premuroso e onirico.

Commovente, spiazzante, uno spettacolo diverso, che tocca il cuore e ci fa meravigliare fermandoci un attimo. Va visto da vicino per sentire i respiri e cogliere le sfumature delle espressioni e i tanti piccoli particolari che chi ama la danza saprà riconoscere (ad esempio l’ombrello usato come la spada di Giselle, o il sassolino della Strada) e che la Ferri ha riportato alla sua vita di ballerina con l’aiuto di Maina Gielgud.

E il ricordo purtroppo un po’ sbiadito torna a quelle splendide interpretazioni di Winnie della Fracci allora 62enne che ci fecero uscire dal teatro a Torino, sognanti e malinconiche. Bello che la Ferri abbia voluto riprendere un lavoro così, e che si sia ricreduta su quello che pensava quando smise di ballare nel 2007 per non ridursi “ad interpretare ruoli creati per me solo perché ho una certa età e non riesco più a fare le cose come dovrebbero essere.”  Ma nel tempo la vita ci smentisce, ci insegna tante cose e talvolta ci rende più indulgenti anche verso noi stessi, aprendo prospettive imprevedibili. Volteggiando sul valzer di Lehar.

Foto di Silvia Lelli

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