Lia Courrier: “A proposito di evoluzione, in che modo è cambiato il ruolo della vista?”

di Lia Courrier
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Riprendo il filo dello scorso numero di SetteOtto per parlare ancora di evoluzione e nuove generazioni. Domenica pomeriggio si è svolta un’interessantissima discussione tra me e uno stimato collega, sull’importanza del senso della vista nell’evoluzione dell’uomo contemporaneo. In effetti, quando la nostra specie è passata dalla posizione di quadrupedia a quella eretta, ha spostato il ruolo di senso principe dall’olfatto alla vista. I nostri progenitori annusavano cibo e oggetti per conoscerli meglio, noi invece analizziamo principalmente con gli occhi.

La lunga stagione che ci ha visto issarci su due sole zampe ha rappresentato un cambiamento epocale nella nostra esistenza di specie, non solo dal punto di vista fisico, ma anche nella formulazione del pensiero e nella scelta delle strategie di vita. Usare la vista come senso principale ha avuto un impatto decisivo nel modo in cui ci rapportiamo con il mondo. Nella maggior parte delle occasioni quotidiane, la vista è lo strumento attraverso cui proiettiamo la nostra attenzione verso l’esterno, di rado accade che questo senso sia utilizzato come una porta attraverso cui far entrare in noi quello che c’è fuori, restando nella quiete. Il nostro concetto di guardare riguarda un’energia prepotentemente rivolta verso l’esterno. Non a caso viviamo oggi in quella che viene chiamata ‘era dell’immagine’, ossia un periodo in cui l’attenzione all’estetica è qualcosa da cui siamo quasi ossessionati, in ogni nostra emanazione. Qualcosa che ci ha portati a dare molta importanza all’apparire, piuttosto che ad essere.

L’ultima frontiera riguarda proprio i device elettronici come computer, tablet e smartphone. Qui la relazione mano-occhio è iperstimolata e la risposta alle azioni è sempre di tipo binario: hai toccato il tasto giusto oppure no. Chi utilizza questi supporti si abitua ad avere delle aspettative, basandosi sull’assunto che a tale azione ci sarà una data reazione. Le macchine sono fatte proprio per questo, infatti quando per qualche motivo non rispondono come ci si aspetterebbe, ci arrabbiamo e cominciamo a imprecare maledicendo la tecnologia e chi l’ha inventata. Questo modello di apprendimento mi ricorda molto l’esperimento di Pavlov, sul riflesso condizionato: quando suona il campanello al cane aumenta la salivazione perché la sua aspettativa lo porta a prepararsi all’arrivo del cibo, ossia esattamente quello che è successo durante la somministrazione dello stimolo condizionante.

Cosa succede quando a bambini piccoli, addirittura in età pre-verbale, viene somministrato lo stimolo condizionante rappresentato dal tablet o dallo smartphone, dove impara che cliccando su una icona verrà avviato il cartone preferito? Un’operazione che verrà eseguita più e più volte ogni giorno, compromettendo profondamente lo sviluppo degli schemi mentali del bambino, in una fase nella quale invece l’immaginazione e la creatività sono ad un potenziale massimo, poiché non ancora condizionati da nulla, neanche dal linguaggio. Un prodotto tecnologico, che funziona secondo un sistema binario, elimina a prescindere ogni possibile alternativa che il bambino potrebbe valutare, poiché è limitato a scegliere tra un numero definito di opzioni, utilizzando solo una parte del suo potenziale sensoriale, mentre una qualsiasi altra attività, come potrebbe essere la manipolazione di materiali o il semplice disegno libero, lasciano il bambino libero di creare infinite strade da percorrere, attingendo a questo oceano infinito di cui dispone. Ricordiamoci che i primi tre anni di vita sono decisivi per l’adulto che saremo da grandi, per questo è molto importante alzare la soglia di attenzione. Ad esempio: molti adolescenti se ne stanno fisicamente nelle loro stanzette o in classe, ma con la mente vagano in qualsiasi altro luogo in cui la connessione internet possa portarti, creando una sorta di dissociazione, che qualcuno potrebbe considerare una meravigliosa via di fuga, ma a me piacerebbe chiedere: fuga da cosa?

Infine questo meccanismo di apprendimento secondo cui ad una data azione corrisponde una reazione, e che crea delle aspettative, si insinua profondamente fino a diventare una abitudine di comportamento, e quando poi si entra in contatto con altri esseri umani, che reagiscono in modo diverso da una macchina, può insorgere il timore nei confronti di qualcosa che non è possibile prevedere. La stessa paura che spinge molte persone ad esporsi sui social piuttosto che dal vivo, poiché i social trasmettono una falsa sensazione di avere tutto sotto controllo e consentono di esporsi mantenendo una certa distanza, mentre in una relazione dal vivo viene messo in campo anche il corpo, con tutto quello che comunica attraverso molti canali sottili. Ciò di cui si parlava con il mio amico e collega, riguarda il ‘come’ questa rassicurante relazione a cui la macchina ci abitua, nel momento in cui viene inserita in un contesto di relazione tra esseri umani, dove bisogna rimanere aperti all’imprevedibile, al diverso, al nuovo.

Alla luce di tutto questo credo sia fondamentale per tutti noi stimolare anche gli altri sensi, come ad esempio il senso del tatto, aprendosi al contatto fisico con gli altri, qualcosa che stiamo lentamente abbandonando persino noi italiani, da sempre amanti degli abbracci calorosi. Ma anche il senso cinestetico (per molti noto come propriocezione), che ci sostiene nella raccolta di dati sensoriali nell’ambito della relazione del corpo con lo spazio e il movimento.

Nonostante io sia convinta che vivere in questo momento di grande progresso tecnologico sia una bellissima avventura a cui abbiamo il privilegio di partecipare, penso anche che questa avventura si viva attraverso un corpo, che ha bisogno di restare vivo e reattivo, vigile e sensibile, e per questo credo sia importante ritornare sempre a casa. In quella casa che abiteremo per tutta la nostra vita terrena e che ci permette di instaurare relazioni sane con noi stessi e con gli altri.

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